L’incantesimo di GiorgiaIl grande bluff del conservatorismo serio di Meloni

I ministri e i dirigenti di Fratelli d’Italia fanno una gaffe dietro l’altra, eppure la loro leader viene risparmiata dalle critiche e non si capisce perché

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È passato il Ferragosto, è tornato il caldo torrido, si continua sudare al mare e in città, evaporano dieci miliardi in un solo giorno nella borsa di Milano dopo la genialata del governo Meloni di tassare chi e come gli pare, prezzi della benzina alle stelle, ministri imbarazzanti anche in ferie, eppure una cosa resiste finora a tutto: la credibilità di Giorgia Meloni. Partiti di opposizione, giornali, commentatori sferrano critiche agli esponenti della maggioranza e di Fratelli d’Italia, generosi anche troppo nell’offrire motivi per farsi tirare le uova. Dalla consueta apologia del fascismo, cui si è aggiunto anche lo stragismo, così per non farsi mancare nulla,  alla ministra Daniela Santanchè che da anni si arricchisce con il suo stabilimento balneare pagando un canone irrisorio allo Stato, fino al ministro Adolfo Urso che si preoccupa di esplicitare alla stampa la volontà ferma del governo di contrastare gli investimenti delle multinazionali, come se queste facessero a schiaffi per investire da noi e un’altra spallata alla nostra credibilità fosse proprio necessaria; per non parlare della favola dell’inflazione, che una volta è cattiva per colpa della Banca centrale europea, un’altra da brava scende grazie all’operato del governo che «riporta in alto l’Italia».

In tutta questa confusione da peracottari al governo mi sfugge, devo ammetterlo, il motivo per cui i ministri siano attaccati, criticati e derisi come scemi mentre la loro capa, la capa dei gabbiani, la capa famiglia, madre della patria no. La sua credibilità resiste. Il suo lessico risicato e banale come il bagaglio culturale che lo alimenta, la voce grave che rivendica successi inesistenti, il muso duro a mimare una fermezza che fa fatica a farsi notare fuori dal provincialismo italico, la narrazione di un underdog, entrato tuttavia in parlamento prima dei trent’anni, e il suo libro autobiografico che ha lanciato lo storytelling della ragazza che si è fatta da sé, evidentemente bastano a soddisfare un Paese che non pretende più nulla da sé stesso.

Mi lascia incredula il commento di cui tutti si riempiono la bocca come pappagalli, quando su Meloni dicono: «studia i dossier». Va bene che li studia, ma questi dossier bisognerà pure capirli e avere delle convinzioni degne di una democrazia liberale per affrontarli! A margine  dell’ultimo Consiglio europeo si pavoneggiava Meloni, autoriconoscendosi il merito di aver portato in Europa il tema dell’Africa e del suo sviluppo. Roba da ridere se non fosse per quel suo libro, ricordato di recente dal giornalista Lorenzo D’Agostino, scritto nel 2019 insieme ad Alessandro Meluzzi e Valentina Mercurio, intitolato “Mafia nigeriana. Origini, rituali e crimini” in cui discetta in più di cento pagine teorie razziste e complottiste secondo cui, sullo sfondo della contrapposizione tra bianchi contro neri, questi ultimi sarebbero colpevoli di traffico di organi, cannibalismo, riti dove si praticano omicidi. Pagine e pagine distillano credenze sul mito del selvaggio africano che vuole sostituirsi alla civiltà occidentale ordinata e disciplinata.

Solo quattro anni fa Meloni, oggi presidente del Consiglio di un grande Paese, teorizzava la sostituzione etnica sulla base di teorie razziste che in confronto quelle del generale Vannacci suonano come idee moderate. Teorie che ultimamente il ministro cognato Francesco Lollobrigida non ha avuto remore a riconfermare.

La svolta centrista di un conservatorismo nuovo è in realtà un grande bluff. Giorgia Meloni ha, astutamente, sfruttato  due contingenze per ripulire la reputazione sua e della sua comitiva di Colle Oppio. Da una parte l’invasione russa in Ucraina e la scelta giustissima di confermarsi fermamente nell’Alleanza atlantica, offre a Meloni un grande credito alla sua credibilità per accreditarsi tra i leader delle democrazie liberali. Lei lo ha capito e infatti insiste su questo, un po’ per distinguersi e smarcarsi quando serve dai suoi alleati, un po’ per guadagnarsi credibilità all’estero. È praticamente l’unica carta forte che ha. 

Dall’altra, all’atlantismo si aggiunge la questione femminile, interpretata nel nostro Paese più come forma che come sostanza. Come se la leadership femminile fosse una gara da guinness dei primati, dove vince chi arriva prima invece che la capacità di offrire modelli diversi di esercizio del potere. 

Dopo l’infelice intervento di Serracchiani sul tema ai tempi del primo discorso di Meloni al Senato, che le valse bastonate e derisioni, nessuno più ha toccato l’argomento. Sembra che manchi la capacità di decostruire un’immagine e un messaggio politico, comprenderlo e offrire una critica convincente agli italiani per dare loro una svegliata o almeno un’alternativa. Invece, sono tutti inteneriti da questa prima donna che scrive post smielati di lei e sua figlia che affrontano il mondo insieme, tutti ammirati dalle lacrime di Meloni che si commuoveva per sé stessa mentre giurava al Quirinale, invece di farsi tremare i polsi per la responsabilità che si stava assumendo. 

Ho l’impressione che qui ci siamo fatti intortare da una politicante, populista e impreparata che non dovendo dimostrare di saper far qualcosa, dice candidamente «sono Giorgia» portando nient’altro che sé stessa come farebbe un’influencer recitando un monologo lagnoso sul palco dell’Ariston. Solo che di te stessa non ce ne importa un bel niente, ci importa di quello che sai fare. 

Quindi, lasciamo da parte l’ennesima versione di un’inutile politica identitaria e la questione di genere, mettiamo da parte anche l’underdog che underdog non è, e iniziamo a giudicare un governo fatto da ministri insufficienti e da un presidente del Consiglio ricordandoci che, sia nei fatti che in costituzione, è primus inter pares.

 

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