Cultura tessileBuone pratiche e nuove generazioni: verso il futuro dell’industria della moda

Per affrontare la complessità delle sfide sociali, climatiche ed economiche di questi anni, anche l’industria tessile deve ripensarsi e adattarsi. E per raggiungere una sostenibilità che sia autentica e completa è necessario passare dalla formazione delle nuove generazioni

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Secondo alcune stime, nel 2023 il settore tessile ha ripreso a funzionare a pieno regime, ritornando ai livelli pre-covid e in alcuni casi superandoli, soprattutto grazie all’export. Dopo aver superato la grande sfida della pandemia, che ha comportato difficoltà tra cui il complesso approvvigionamento di materie prime, un aumento dei costi dell’energia e il mancato pagamento di lavori e lavoratrici, il settore si trova a dover affrontare nuove sfide non prorogabili: quelle che riguardano la digitalizzazione, la gestione dell’intelligenza artificiale e, soprattutto, la crisi climatica. Volente o nolente, l’industria tessile si deve reinventare e adattare agli imperativi del nostro tempo, questioni che non è più possibile trascurare.

Partendo dal fast fashion, anche la produzione di capi di lusso deve reinventarsi e aggiornarsi, adattandosi alle necessità, che impongono di fare i conti con il grande e spinoso tema del consumismo (sfrenato) e delle sue conseguenze. «Il capitalismo ha imposto un modello di consumo per cui si vogliono cose nuove anche prima che quelle vecchie si siano consumate del tutto – ha detto Sergio Tamborini, presidente del Sistema Moda Italia e amministratore delegato di Ratti S.p.A. (Gruppo Marzotto) -, il mondo della moda mette sul mercato centocinquanta-centottanta miliardi di capi di abbigliamento all’anno, circa cinquanta pezzi a testa in media annui. Questo modello sta andando in crisi e non solo per via del cambiamento climatico».

Secondo un report del Parlamento europeo, infatti, nel 2020 il consumo medio dei prodotti tessili per persona ha portato al consumo di quattrocento metri quadrati di terreno, trecentonovantuno di materie prime e nove metri cubi d’acqua. Sono numeri che già impressionano, ma se moltiplicati per ogni consumatore e ogni consumatrice offrono uno scenario ben più drammatico. A livello globale si stima che l’industria tessile, nel 2015, abbia usato settantanove miliardi di metri cubi di acqua e che il consumo sia aumentato di centottantasette unità nel 2017, arrivando a toccare i duecentosessantasei miliardi.

Oltre ai dati sul consumo, sono considerevoli anche quelli riguardanti l’inquinamento idrico, derivante dal lavaggio degli indumenti e dei tessuti. Questa pratica è responsabile del trentacinque per cento del rilascio complessivo di microplastiche primarie nell’ambiente. Queste, oltre a danneggiare in via diretta gli ecosistemi e impattare soprattutto sulle aree produttive già interessate da stress idrico, dove l’insufficiente approvvigionamento dell’acqua influisce enormemente sulle condizioni di vita di lavoratori, lavoratrici e comunità locali, tornano ai consumatori, entrando nella catena alimentare. Il settore moda ha un impatto considerevole anche sull’inquinamento dell’aria. Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, nel 2020 gli acquisti tessili hanno prodotto circa duecentosettanta chilogrammi di emissioni di CO2 a persona.

Insieme alla responsabilizzazione del consumatore, necessaria ma insufficiente nel formulare una risposta tempestiva ed efficace al collasso climatico, è primario affiancare alle pratiche individuali un serio percorso di transizione verso prassi più green anche da parte delle aziende, spostando l’attenzione e investendo su un approccio che sia davvero sostenibile, su tutti i livelli: ambientale, sociale ed economico. Sotto il termine-ombrello di sostenibilità, infatti, si trovano diversi temi, tutti connessi tra loro e che richiedono una risposta olistica e comprensiva, che ha bisogno di solide competenze nella gestione e nell’utilizzo delle risorse disponibili e, non meno importante, che sia rispettosa e inclusiva.

Considerando anche che il quindici per cento dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo è occupato nel settore tessile e in quello della moda, questo processo apre anche una riflessione sulla parità di genere. Da un’analisi condotta da Cerved nel maggio 2023 emerge che in Italia, su un campione di 1,5 milioni di società, solo un’azienda su quattro è guidata da donne. Secondo uno studio di Altagamma-Unioncamere, pubblicato nel libro I talenti del fare 2, nei prossimi cinque anni saranno richiesti più di 94mila profili nell’industria della moda.

Quest’industria sta sicuramente cambiando in modo repentino. Basti pensare alle tecniche di produzione sempre diverse, ma anche all’introduzione di nuovi strumenti di produzione, ai nuovi ritmi e ai percorsi di digitalizzazione, che richiedono l’apprendimento di competenze e pratiche innovative, insieme anche a una necessaria collaborazione tra uomo e macchina.

Oltre ai nazionalismi che permeano dalle proposte del governo di istituire un liceo del Made in Italy, la sfida alla sostenibilità si affronta anche e soprattutto sul piano di un fisiologico ricambio generazionale, attraverso una formazione delle persone sui luoghi di lavoro. Le aziende ora devono puntare anche sulla trasmissione di buone pratiche, di tecniche e conoscenze tramandate per anni, trasferendo un bagaglio culturale e di competenze, che sia forte dell’esperienza delle generazioni passate e che, saggio, sia capace di adattarsi e formulare risposte attuali e precise, lasciando spazio alle nuove generazioni e investendo sul loro futuro.

«Trasmettere una cultura approfondita delle pratiche tessili, dei mestieri, è mandatorio per la sostenibilità del settore, racconta a Linkiesta Etc Franco Mantero, presidente di Mantero Seta spa. «La formazione e l’attenzione all’ambiente interno sono elementi indispensabili per una sostenibilità, che sia anche economica». Le competenze di base che si tramandano all’interno dell’azienda sono principalmente legate ai processi produttivi, alla chimica, all’information technology, al disegno e ai software collegati, alla gestione del colore, alla cura di macchine e impianti, alla sicurezza.

Secondo Mantero, «la competenza lungo l’intera filiera e processo produttivo è il terreno fondamentale per imparare a usare al meglio le nuove tecnologie. La cultura nella gestione del colore, per esempio, è un indispensabile per saper sfruttare al meglio la tecnologia più recente, creando prodotti straordinariamente nuovi», a dimostrazione del fatto che la conoscenza profonda della parte analogica del lavoro consente di utilizzare al meglio l’innovazione derivante dal digitale.