Che la decarbonizzazione del trasporto marittimo – un settore responsabile del due per cento circa delle emissioni globali di CO2 legate all’energia – fosse una questione importante ai fini dell’azione climatica lo si sapeva già. Quello che non si sapeva, almeno fino a poco tempo fa, era che una delle soluzioni introdotte per rendere più sostenibile l’industria dello shipping potesse rivelarsi controproducente, in un certo senso.
Nell’Atlantico settentrionale il traffico marittimo è particolarmente intenso, eppure per molti anni quest’area si è riscaldata a un tasso più basso rispetto ad altre zone del mondo. Lo scorso luglio, però, la superficie oceanica ha raggiunto la temperatura record di venticinque gradi, e potrebbe salire ancora.
La causa principale – come ricostruito dalla rivista scientifica Science – sono le emissioni di gas serra che intrappolano il calore nell’aria, pronto per essere assorbito dagli oceani: queste vaste distese d’acqua accolgono infatti circa un terzo dell’anidride carbonica prodotta dall’umanità. Un fattore secondario è stato il meteo: il perdurare dell’alta pressione ha ostacolato la formazione delle nuvole e permesso ai raggi del Sole di raggiungere direttamente la superficie dell’oceano.
Il terzo motivo del maggiore riscaldamento è la scomparsa delle cosiddette ship tracks, le “scie delle navi”, una tipologia di nubi che si formano attorno ai gas di scarico, contenenti zolfo, delle imbarcazioni. Nel 2020 l’Organizzazione marittima internazionale (Imo), un istituto delle Nazioni unite, ha imposto delle regole per limitare le emissioni di zolfo delle navi che hanno permesso di ridurre i livelli di inquinamento dell’ottanta per cento. Il tutto a beneficio della qualità dell’aria, specialmente nelle città portuali.
Ma a scapito delle ship tracks, che nonostante l’origine “sporca” svolgono un ruolo importante per il raffrescamento degli oceani. La diminuzione delle scie lasciate dalle navi cargo nelle affollatissime rotte dell’Atlantico del nord ha dunque fatto sì che i raggi del Sole, non incontrando nubi riflettenti, raggiungessero direttamente le acque oceaniche, riscaldandole.
Il regolamento dell’Imo, insomma, ha avuto delle significative – benché non volute – conseguenze sul clima, riscaldando il Pianeta di 0,1 watt per metro quadro, stando a un paper in fase di esame citato da Science. La scomparsa delle ship tracks ha causato uno «shock al sistema» dell’Atlantico settentrionale, afferma lo studio. Il punto è che non sappiamo abbastanza sugli aerosol, come quelli a base di zolfo che rifrangono la luce solare: pur essendo degli agenti inquinanti – anche molto pericolosi, si pensi all’anidride solforosa (SO2) –, una diminuzione delle loro emissioni potrebbe aggravare il riscaldamento globale perché farebbe aumentare la radiazione solare che raggiunge la superficie.
Per ridurre l’impronta carbonica del trasporto marittimo, un’attività difficile da elettrificare sulle lunghe distanze, il rimedio più immediato è il gas liquefatto (Gnl), meno emissivo rispetto ai tradizionali carburanti a base di petrolio bruciati dalle navi. Una soluzione a emissioni zero, invece, può essere l’ammoniaca: si tratta di un composto formato da idrogeno e azoto che non rilascia carbonio durante la combustione, che ha una buona densità energetica (la quantità di energia immagazzinata entro un certo volume) e che si può produrre a partire dall’elettricità generata da fonti rinnovabili.
Oggi l’ammoniaca si utilizza principalmente per i fertilizzanti, ma può essere applicata anche in campo energetico. Il problema è che produrre ammoniaca “verde” costa ancora parecchio – la tecnologia non è matura – e richiederebbe delle modifiche tecniche alle imbarcazioni.