Lo scorso giovedì, il Partito Socialista del premier uscente Pedro Sánchez è riuscito a eleggere la sua candidata Francine Armengol come presidente del parlamento spagnolo grazie a un accordo con il partito indipendentista catalano Junts, guidato dal leader in esilio Carles Puigdemont. L’accordo, arrivato a poche ore dall’inizio delle votazioni, rende meno probabile il ritorno alle urne e apre uno spiraglio per un possibile ritorno al governo di Sánchez. Dai vertici del parlamento resta fuori il partito di estrema destra Vox, terza forza politica del Paese, vittima del mancato sostegno del Partido Popular (Pp, centrodestra), corso ai ripari per assicurarsi almeno due seggi della vicepresidenza.
Alle elezioni dello scorso 23 luglio, infatti, nessuna coalizione era riuscita a raggiungere la maggioranza assoluta necessaria per formare un nuovo governo (centosettantasei seggi). Sia la coalizione di destra, formata dal Partido Popular e Vox, che quella di sinistra, composta dal Partito socialista (Psoe), da Sumar e da alcuni partiti indipendentisti e regionali, si erano fermate a centosettantuno seggi. La formazione di un nuovo governo era (e continua a essere) quindi nelle mani dei partiti rimasti fuori dalle formazioni principali, ovvero da Coalizione Canaria, che conta una sola deputata, e dai sette deputati di Junts.
La notizia del sostegno di Junts alla candidata del Psoe era già arrivata giovedì in mattinata, accompagnata dalle tre richieste avanzate dal partito indipendentista: il via libera all’uso del catalano e altre lingue ufficiali dello Stato spagnolo all’interno del parlamento e l’apertura di due commissioni d’inchiesta per indagare l’uso dello spyware Pegasus ai danni dei politici catalani tra il 2017 e il 2020 e gli attentati terroristici a Barcellona e Cambrils del 2017.
Il sostegno compatto di Junts alla candidata del Psoe, ex presidente delle Baleari, repubblicana e catalanofona, eletta durante la prima votazione con la maggioranza assoluta dei voti, è un buon segnale per Sánchez, la cui speranza di formare un nuovo governo dipende sostanzialmente dai voti a favore dei parlamentari di Junts.
«Ad alcuni sembrerà troppo, ad altri sembrerà poco. È una trattativa per i vertici del Congresso. L’investitura è esattamente dov’era il giorno dopo l’elezione», ha scritto Puigdemont su X (ex Twitter), sottolineando che l’accordo per la presidenza del parlamento non si tradurrà in un sostegno automatico all’investitura di Sánchez come premier. Le trattative tra Junts e la coalizione di sinistra per un eventuale Sánchez III sono iniziate da settimane e rimangono perlopiù segrete: sul tavolo ci sono l’amnistia per tutte le persone coinvolte nei processi per il referendum catalano del 2017 e l’organizzazione di un nuovo referendum.
Nonostante l’ultima legislatura di Sánchez abbia portato a una normalizzazione dei rapporti tra lo Stato spagnolo e gli indipendentisti catalani, che dal governo hanno ottenuto la grazia per i politici incarcerati e l’eliminazione del reato di sedizione, al momento le rivendicazioni di Junts rimangono troppo ambiziose. Allo stesso tempo, dopo i risultati ben al di sotto delle aspettative delle scorse elezioni, per il partito di Puigdemont tornare alle urne sarebbe un rischio enorme, che solo il leader della formazione e pochi fedelissimi sarebbero disposti a correre.
La grande sconfitta delle votazioni di giovedì scorso resta quindi la coalizione di destra, che in questo momento è più debole che mai. Di fronte all’accordo tra Psoe e Junts, in mattinata il Partido Popular ha fatto sapere agli alleati di Vox che non avrebbero sostenuto il loro candidato alla vicepresidenza per concentrare gli sforzi sui membri del proprio partito. «Non mi sembra normale che la terza forza politica del Paese sia rimasta fuori dai vertici del parlamento, ma non è l’aspetto più grave di quel che è successo oggi», ha dichiarato alla fine delle votazioni il leader di Vox, Santiago Abascal, riferendosi all’accordo con le forze indipendentiste come a una «congiura contro la Costituzione». Sollecitato dalle domande della stampa, Abascal ha sottolineato che l’alleanza con il Pp rimane in piedi, ma che tra i due partiti rimangono alcune questioni da chiarire.
Ora il futuro della Spagna è nelle mani del re Felipe VI, che nei prossimi giorni convocherà i leader delle principali forze politiche per decidere a chi affidare l’incarico di provare a formare un nuovo governo. Arrivato alla nona consultazione in nove anni, Felipe VI dovrà decidere se dare più peso alle urne, e quindi scegliere il leader del partito che ha preso più voti (ovvero il Pp), o alle coalizioni, scommettendo quindi sulla formazione di sinistra guidata da Sánchez e sul suo eventuale accordo con gli indipendentisti. Il candidato scelto dal re avrà due mesi di tempo per ottenere la fiducia: in caso né lui, né altri candidati riuscissero a formare un governo, la Spagna tornerà a votare per la terza volta in meno di un anno.