All’inizio fu la parola: la parola detta, nelle conversazioni quotidiane, raccontata dalle madri o dalle balie ai loro bambini, recitata da fini dicitori, cantata dagli aedi durante i simposi, e la parola scritta, dai poeti, dai mitografi, dai tragediografi, che dedicarono ai grandi personaggi dell’epos e del mito le loro opere. E la parola, detta e scritta, presto si tradusse in formule iconografiche, un mezzo di comunicazione che ha uno statuto e percorsi suoi propri, che si intrecciano e talvolta confliggono, ma sono fondamentali per ricostruire il tessuto culturale del passato.
[…] Evocative e sfuggenti a un tempo le immagini sono infatti un tassello importante per avvicinarci alla cultura classica. Popolavano il quotidiano degli antichi, si dispiegavano su oggetti d’uso e su doni votivi, sulle pareti e i pavimenti delle case, sulle stoffe da arredamento o da abbigliamento, sui gioielli e sulla suppellettile di lusso, sulle monete e sui grandi monumenti pubblici che esaltavano le glorie della città. Bastava uno sguardo anche distratto per riconoscere personaggi e situazioni e comprendere il senso di quella specifica rappresentazione in quel contesto.
In una società poco alfabetizzata qual era quella antica il repertorio figurato veicolava messaggi che arrivavano alla mente e al cuore dello spettatore in forza di una cultura condivisa che si era formata grazie anche, e forse soprattutto, alla tradizione orale e agli spettacoli, dove gli attori si esprimevano con i gesti e la postura del corpo, fissando in schemi iconografici i momenti salienti del racconto.
[…] La parola si fa immagine e l’immagine contribuisce a plasmare e diffondere una cultura comune, fissando in formule iconografiche facilmente riconoscibili gli episodi narrati nelle grandi saghe epico-mitiche, ma registrando anche situazioni differenti rispetto a quelle note e codificate dai testi classici. E questa realtà, giunta a noi attraverso i diramati canali della memoria dell’antico, presenta anche elementi di attualità, invitandoci e riflettere su fenomeni come quello che va sotto il nome di cancel culture, che vorrebbe eliminare la quasi totalità del mondo classico perché espressione di una cultura maschile, prevaricatrice e fortemente misogina, attraversata da valori per noi del tutto incomprensibili. Ben poche sono infatti nella mitologia classica le figure femminili capaci di abnegazione e sacrifici estremi, come Alcesti, disposta a morire pur di salvare il marito da morte certa, o Antigone, che contravviene alle rigide leggi del padre pur di dare onorata sepoltura all’amato fratello Polinice. Ma proprio per questo ricostruire e comprendere quei mondi lontani ed entrare nel cuore e nell’anima di quei personaggi è forse utile anche per evitare che certe realtà ritornino.
Si tratta tuttavia di un’impresa non facile, perché della vita quotidiana di coloro che popolavano i racconti degli antichi, dei loro pensieri, delle loro emozioni e dei loro sentimenti, al di fuori di quei pochi episodi su cui la tradizione classica si è concentrata, non sappiamo quasi nulla. Com’era Elena, la fatale Elena che ha scatenato la più grande guerra dell’antichità, da bambina? E che ne fu di lei dopo il ritorno a Sparta, al fianco di un marito che l’aveva faticosamente perdonata? E come passava le sue giornate in Tauride Ifigenia, condannata dal padre sull’altare di un ineludibile scontro di civiltà e salvata da Artemide che le aveva affidato l’ingrato compito di sacrificare gli stranieri? E cosa avvenne di lei dopo la sua rocambolesca fuga da quelle terre lontane con il fratello ritrovato? Si sposò? Ebbe figli?
Domande a cui chi decide di cimentarsi con l’impari compito di ricostruire biografie mitiche deve cercare di dare risposte, pur consapevole di doversi confrontare con un’altra, quasi insormontabile, difficoltà, che riguarda la contraddittorietà delle fonti e l’ambiguità delle testimonianze iconografiche. Infatti, se da un lato degli eventi narrati, spesso con dovizia di particolari, non vi è quasi mai una versione univoca, ma una serie di informazioni differenti, che rispondono alle esigenze dei tempi in cui la narrazione fu rielaborata per un nuovo pubblico, dall’altro l’immagine, che condensa in un solo fotogramma un intero racconto, è capace più del testo scritto di manipolare lo spettatore, perché di una storia sceglie solo il momento più adatto a mettere in luce qualità o difetti del protagonista, funzionali al messaggio che si intende trasmettere.
E poco giova per ricostruire il contesto in cui gli episodi mitici si svolgevano conoscere usi e costumi della società greca o romana, perché le abitudini di vita di questi personaggi affondano in un passato ben più lontano, che spesso non ha agganci con quello storicamente documentato.
[…] Ripercorrere con occhi disincantati gli accadimenti, talvolta drammatici, che coinvolgono [le donne del mito], offre chiavi di lettura anche per comprendere aspetti della società che con quei miti e di quei miti viveva: emergono, ad esempio, spunti sulla quotidianità femminile, confinata in un’inevitabile subalternità, e sul ruolo delle nutrici, presenze imprescindibili nella vita delle fanciulle alle quali dedicavano tutte se stesse, pronte a qualsiasi sacrificio ma anche a ogni nefandezza per vederle felici. Ma ciò che più importa è che le nostre cinque protagoniste, subdole ingannatrici, maghe malefiche, vittime di incontrollabili pulsioni erotiche, fredde assassine, illustrano con lucida oggettività la valutazione negativa e sprezzante che gli antichi davano delle donne: pericolose per la società, capaci di contravvenire a ogni legge morale, manipolatrici e traditrici. «Belle fuori, ma marce dentro», sentenzia Ippolito, disgustato dall’amore della matrigna Fedra. E poco importa se le loro colpe sono ineluttabili perché indotte dalla volontà divina: la condanna che le colpisce è senza appello.
Circe, Pasifae, Arianna, Fedra e Medea sono dunque archetipi e testimoni di una misoginia dura a morire che percorre tutta la classicità per transitare nella pubblicistica cristiana che in quei modelli vedeva concretizzarsi la presenza del maligno. In questa luce si comprende anche come l’inusuale nudità di Circe, attestata in alcune rappresentazioni, sia un sintomo della paura che l’uomo antico aveva della potenza numinosa del corpo femminile, quel corpo capace di dare la vita, ma anche la morte in mille modi differenti. Quel corpo che la mitica Onfale, regina di Lidia, aveva usato per soggiogare Eracle, il più forte fra gli eroi greci.
Dalla lettura delle vicende, più o meno romanzate, delle discendenti del Sole emergono spunti che gettano luce anche su eventi che hanno segnato la grande storia. Circe e Medea, ad esempio, sono simboli dell’eterna lotta tra Oriente e Occidente, iniziata con l’audace traversata della nave Argo, che con il suo carico di eroi solcò per prima mari sconosciuti per raggiungere la mitica terra dove sorge il sole e compiere un furto che non sarebbe stato perdonato e avrebbe portato morte e lutti alla grecità tutta.
Quell’impresa è all’origine di un conflitto mai sopito che vede snodarsi nei secoli capitoli drammatici, ora adombrati attraverso il mito, ora vidimati dal suggello della storia. È a Troia che si consuma il primo scontro fra due culture così distanti l’una dall’altra, uno scontro che costò la vita alla “meglio gioventù” del tempo e si concluse solo grazie all’inganno perpetrato dall’astuto Odisseo; un inganno che viola tutte le leggi della lealtà e sfata la vulgata dell’Oriente traditore.
Ma prima, o forse dopo, nel tempo indefinito degli dèi, che non coincide con quello degli eroi e degli uomini, lo scontro con l’Oriente aveva incrociato la vita di Arianna assumendo le gioiose sembianze di Dioniso, dio dell’estasi e della beatitudine che con il suo rumoroso corteggio aveva raggiunto l’India misteriosa per portare i suoi doni e conquistare al suo culto le popolazioni locali. Da lì era tornato carico di prede che sancivano la sua vittoria: oro, argento e avorio, il prezioso legno d’ebano, e incenso, mirra, zafferano e spezie rare. Lo accompagnavano animali mai visti: struzzi, cammelli, pappagalli e i maestosi elefanti che facevano tremare il terreno al loro passaggio.
La vendetta dell’Oriente si concretizzò dopo secoli con l’invasione della Grecia: l’Acropoli profanata fu un trauma indimenticato che segnò per sempre il cuore della classicità, e i templi e le statue, che erano stati toccati da mano sacrilega, furono sepolti, come in sacra favissa, nel suolo stesso della rocca di Atene.
La storia dello scontro fra civiltà continua con la gloriosa marcia di Alessandro fin nel cuore della potenza persiana e poi attraversa i secoli del dominio di Roma, che vede vittorie e sconfitte fino alla dissoluzione dell’Impero.
Questo, e molto altro, si può cogliere in filigrana leggendo le vite avventurose delle donne della stirpe del Sole, ricostruite attraverso l’intersecarsi, il sovrapporsi e l’integrarsi dei testi e delle diverse tipologie di fonti. Ma non solo. Mi piace pensare che questo approccio interdisciplinare possa aiutare a scorgere un orizzonte nel futuro incerto della materia di cui mi sono occupata per tutta la vita. Se la filologia dell’immagine da sola, infatti, poco può nel determinare la sorte accidentata della storia dell’arte antica, il rinnovato rapporto con il testo scritto contribuisce forse a dare una nuova prospettiva, cercando di correggere quella sorta di “consumismo culturale” che tenderebbe a trattare ogni reperto che l’antichità ci ha tramandato come un unicum, esaltandolo nella sua singolarità e trascurando il necessario approccio scientifico, che si fonda sulla ricostruzione del contesto attraverso l’attenta analisi di ciascun manufatto e la messa in serie della documentazione. Portare lo sguardo al centro di un fitto intreccio di competenze, non solo iconografiche ma letterarie e storiche, vuol dire rivalutare l’importanza di quel sostrato di sapere (un tempo condiviso) necessario per affrontare la tradizione al riparo da tentazioni pregiudiziali e pregiudizievoli.
Da “Maledette. Le donne nel mito” di Francesca Ghedini, Marsilio, pp. 304, 18 euro.