Il rifugio dei ricordiLa mia valigia piena di libri e parmigiano e il potere curativo della casa dei genitori

Questo posto che ho perso e ritrovato tante volte negli ultimi diciassette mesi è stato costruito da mio nonno negli anni Cinquanta, mattone su mattone, ed è ancora in piedi nella regione ferita dai bombardamenti e dall’occupazione

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Sono stata in viaggio da lunedì a giovedì, cambiando stazioni, binari, poltrone taxi. Sul binario della partenza da Lviv per Kyjiv mi ha colto alla sprovvista la sirena, subito dopo sono arrivati i messaggi degli amici leopoliani, per istruirmi su quali canali social leggere per sapere che cosa fare. Ormai le forze dell’antiaerea ucraina sono così precise da saperti dire che cosa si è alzato in volo, da quale aeroporto in Russia è partito e la direzione di una morte ipotetica. Mi sono sentita spoglia e non protetta con la mia valigia europea troppo pulita e piena di libri e parmigiano. Sono scesa giù nel sottopassaggio per tranquillizzare la mia coscienza, tanto alla partenza mancava ancora un po’ di tempo.

Quest’anno i treni verso Kyjiv ce ne sono in abbondanza, ho scelto quello più veloce che ci mette quattro ore e mezzo, l’anno scorso ce ne avevo messe otto con uno dei due treni disponibili. Il paesaggio dietro il finestrino è quello di tutte le foto, vignette, articoli scritti e riscritti sull’Ucraina in questi diciassette mesi, pittoresco, verde, giallo e blu con delle chiazze bianche dei corpi delle cicogne che svolazzano nei campi alla ricerca di cibo. Non avevo mai visto così tante cicogne che oltre il cielo forato dagli attacchi continui hanno trovato la loro strada di ritorno verso casa e poi ripartiranno per i posti caldi, scappando da un altro inverno freddo e buio che ci si aspetta in Ucraina.

Il paesaggio idilliaco distrae poco, la guerra è presente ovunque con i militari che viaggiano in licenza nel treno nella stessa carrozza con i civili, con la moglie di un militare che al cellulare gli sta cercando delle magliette, perché quelle che c’erano in negozio non gli piacciono, con altro militare che si presenta insieme a me alla clinica dove mia madre mi ha fissato la visita medica e che verrà operato gratis all’occhio danneggiato da una scheggia. Un altro militare sta prelevando dei soldi dal bancomat nel capoluogo della mia provincia, occupata dai russi sedici mesi fa. La radio con le notizie e gli annunci sulle sirene, i cartelloni della pubblicità con i telefoni e i codici per le donazioni, la tv con la maratona di notizie cui dall’Italia ho partecipato raccontando la visita di Zelens’ky a Roma e l’esibizione degli Antytila a Sanremo.

Sono in viaggio da lunedì a giovedì e sono stanca, con poche ore di sonno nel sangue e nel cervello, perché le emozioni sono tante, perché gli incontri con gli amici sono brevi e vorrei spremere il tempo nella mano come un limone tagliato a metà.

È giovedì e dopo tutte le stazioni, i binari, le poltrone e i taxi sono arrivata a casa dei miei genitori, il posto che ho perso e ritrovato tante volte negli ultimi diciassette mesi. La casa ha quel modo riparatore esplicito senza svolgere qualche azione precisa: essere lì presente con tutti quei sapori e quegli odori, con le more che crescono accanto al tavolo nel giardino dove in estate si fa colazione, pranzo e cena, con quelle cavallette che cantano sotto la finestra la sera e il ritratto di Taras Shevchenko che ti guarda mentre scrivi, perché scrivi e scrivi tanto in questo posto speciale, costruito da mio nonno negli anni Cinquanta mattone su mattone, ancora in piedi nella regione ferita dai bombardamenti e dall’occupazione. La casa ti accoglie, ti coccola, ti stende e fa riposare il corpo stanco dopo l’anno pesante il viaggio compiuto fino all’Ucraina, con tante grandi e piccole valigie riempite di libri e di parmigiano.

La mattina scattano le sirene, i canali Telegram avvisano della minaccia concreta di un missile Kindzhal che sta arrivando sulla capitale. Ormai le forze aeree dell’Ucraina sono abbastanza efficienti a proteggere i civili grazie al sostegno mondiale, infatti il razzo è stato abbattuto nei pressi della capitale senza provocare morti e feriti, qualche detrito è caduto nel cortile dell’ospedale pediatrico in periferia di Kyjiv, ma i bambini erano tutti nel rifugio.

Qui nel paese le sirene non si sentono, si sente la sega elettrica che taglia la legna, qualche cane che abbaia nel cortile, una macchina che passa per la strada principale mentre solo a ottanta chilometri cascano dal cielo i detriti dei missili, a soli ottanta chilometri.

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