Figura da cioccolataiL’assurda storia delle gelaterie italiane finanziate con i soldi per la mitigazione climatica

I 4,2 milioni di euro presumibilmente ricevuti da Venchi non rappresentano che le briciole di un far west normativo internazionale. È il buco nero della finanza climatica globale

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Nel 2015, in Francia, si è tenuta la ventunesima conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, meglio nota come Cop21. L’incontro passò alla storia grazie alla firma dell’Accordo di Parigi, che non si limitò alla stesura di piano d’azione per limitare il riscaldamento globale (in cui figura il famoso target dei +1,5°C di temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali). Le principali potenze mondiali, infatti, pattuirono anche lo stanziamento di cento miliardi di dollari l’anno «per aiutare i Paesi in via di sviluppo a contrastare gli effetti del riscaldamento globale».

Un’inchiesta di Reuters pubblicata lo scorso giugno ha preso in esame circa quarantaquattromila di questi contributi (il dieci per cento del totale), comunicati dai vari governi all’Onu. Nell’arco di cinque anni, l’ammontare degli investimenti destinati alla mitigazione climatica dei Paesi meno sviluppati è stato conteggiato in centottantadue miliardi di dollari, meno della metà rispetto a quanto concordato nel 2015. Il vero problema, però, è che moltissimi di questi soldi non sono stati realmente impiegati per mantenere gli impegni presi. 

L’indagine, condotta in collaborazione con il programma di giornalismo della Standford University Big Local News, ha rivelato numerose zone d’ombra nei rapporti presentati alle Nazioni Unite, denunciando una drammatica mancanza di trasparenza del sistema. Le attività coinvolte nei finanziamenti dal 2015 a oggi – consultabili a questa pagina – hanno riguardato, tra le varie, l’apertura di hotel, la produzione di film romantici, l’ampliamento di aeroporti e persino la costruzione di centrali a carbone.

Nulla ha impedito ai vari Paesi di conteggiarli nel totale degli stanziamenti destinati alle Nazioni più arretrate nella lotta alla crisi climatica, in quanto di fatto non è stata infranta alcuna regola. Il perché è presto detto: gli accordi non prevedevano linee guida ufficiali su quali attività fossero da considerare o meno finanziamenti utili alla causa. Alcuni governi hanno sviluppato autonomamente standard equi, altri hanno sfruttato le zone grigie per i propri interessi.

La rete di Nazioni poco virtuose si estende dagli Usa al Giappone (primo per investimenti dichiarati), passando per gli Stati dell’Unione europea. Italia compresa. Uno dei casi più eclatanti e bizzarri, peraltro, riguarda proprio il nostro Paese.

Una storia italiana: l’espansione asiatica di Venchi
La prima parola in assoluto dell’inchiesta di Reuters è «Italy». Il lungo report dell’agenzia di stampa britannica apre dicendo: «L’Italia ha aiutato un rivenditore ad aprire negozi di cioccolato e gelato in tutta l’Asia». 

Tra i presunti impegni climatici registrati dal nostro governo compare infatti un finanziamento azionario di 4,2 milioni di euro a Venchi, storico marchio piemontese di gelaterie e cioccolaterie. Simest, società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti che aiuta le imprese italiane a espandersi all’estero, si è occupata in prima persona del sovvenzionamento nel 2018, contribuendo all’ampliamento commerciale della food company in Asia attraverso l’apertura di punti vendita in Giappone, Cina e Indonesia (come riportato nel comunicato stampa rilasciato all’epoca e all’interno del report annuale Simest del 2018, da pagina diciannove).

Venchi è cresciuta notevolmente negli ultimi anni. Nel 2020 contava centoquaranta negozi monomarca in tutto il mondo; solo il Covid ha fermato una crescita industriale che nel 2019 ha registrato un fatturato record di cento milioni di euro. 

Venchi Ginza Store di Tokyo, credits via Twitter: @wh_vv_9331

Contattato da Linkiesta, l’ufficio stampa di Simest ha commentato spiegando che «la lista di operazioni che combattono il cambiamento climatico è stata redatta dal ministero attraverso l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ndr). Simest si occupa di supportare l’internazionalizzazione delle imprese, i criteri per cui queste operazioni sono state inserite nella lista non dipendono da noi».

Interpellata, Ispra ci ha risposto a sua volta di non essersene occupata, suggerendo di sentire direttamente il ministero. Al momento della pubblicazione di questo articolo, non abbiamo ricevuto risposte da Roma. Contattato da Reuters prima della pubblicazione dell’inchiesta, un portavoce del ministero responsabile delle relazioni dell’Italia alle Nazioni unite si era limitato a dire che il progetto aveva una componente climatica, ma non aveva voluto approfondire. 

Al magazine Materia Rinnovabile, Venchi ha dichiarato di non essere a conoscenza della rendicontazione. Ha però aggiunto: «Secondo noi è stata fatta confusione tra diversi finanziamenti, abbiamo infatti emesso un green bond alla fine del 2022 con Sace (società controllata dal ministero dell’Economia, ndr)». Sorge il dubbio che si sia trattato, semplicemente, di cattiva amministrazione. Tuttavia, come spiega la rivista, potrebbe anche essere stato un tentativo di far quadrare i conti relativi alla finanza climatica del nostro Paese.

Naturalmente, i soldi ricevuti da Venchi non rappresentano che le briciole di un far west normativo internazionale che ha visto la proliferazione di iniziative discutibili. Quei 4,2 milioni di euro sono una quota decisamente minoritaria all’interno di un calderone di stanziamenti economici che sulla carta dichiaravano obiettivi di mitigazione climatica, ma che di green non hanno mai avuto nulla. 

Il buco nero della finanza climatica mondiale
A livello globale, Reuters sottolinea come dal 2015 al 2020 i Paesi più sviluppati abbiano messo a registro più di quarantamila contributi erogati con scopi di lotta alla crisi climatica, per una cifra totale di oltre 182 miliardi di dollari. Tra questi, oltre alla vicenda Venchi, compare un prestito per l’ampliamento di un hotel costiero ad Haiti stanziato dagli Stati Uniti, il finanziamento del film belga La Tierra Roja (una storia d’amore ambientata nella foresta pluviale argentina) e l’apertura di una nuova centrale a carbone in Bangladesh da parte del Giappone, giustificata dai funzionari nipponici come green perché «inclusiva di tecnologie più pulite e caratteristiche sostenibili».

Eccezioni in senso positivo, fortunatamente, ce ne sono. Trentatré Paesi – tra cui Regno Unito e Canada – hanno presentato rapporti dettagliati a Reuters, la quale ha potuto constatare spese miliardarie allineate agli obiettivi climatici dichiarati. Tra questi, gli investimenti in energie rinnovabili e in progetti di resilienza ai disastri naturali.

Tuttavia, oltre sessantacinque miliardi di dollari sono stati denunciati in modo così vago che è impossibile dire per cosa siano stati destinati. Inoltre, almeno cinquecento milioni si sono persi in progetti poi cancellati senza che venissero erogati fondi, con le Nazioni in via di sviluppo che attendono tuttora le operazioni promesse.

Anche secondo il report Climate Finance Shadow 2023, realizzato da Oxfam, nonostante i Paesi donatori affermino di aver stanziato 83,3 miliardi di dollari in aiuti nel 2020, la cifra reale oscillerebbe tra i ventuno e i 24,5 miliardi (circa un quarto). Un vero e proprio buco nero della finanza green. Molti dei progetti sarebbero stati erogati sotto forma di prestiti al loro valore nominale, «aggravando il peso del debito estero di economie già fragilissime e fortemente indebitate – riporta il dossier –, ancor più in un periodo in cui i tassi di interesse stanno schizzando alle stelle».

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