Sultan Al Jaber è il ministro degli Emirati Arabi che ha accolto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sulla pista dell’aeroporto di Abu Dhabi. Uomo alto, distinto, di mondo, studi superiori in Regno Unito e Stati Uniti. C’era un motivo per cui era lui ad accogliere la premier appena scesa dall’aereo. Nel menu del vertice tra Italia ed Emirati c’era anche un nuovo accordo di cooperazione tra Eni e l’Abu Dhabi National Oil Corporation (Adnoc), del quale Al Jaber è amministratore delegato.
Negli Emirati Eni opera da diversi anni nel settore dell’esplorazione, dello sviluppo e della produzione di idrocarburi, al ritmo di sessantamila barili di petrolio al giorno. Al Jaber è ministro dell’Industria, capo dell’azienda petrolifera di Stato e inviato per il clima: è come se Giorgetti, Descalzi e Pichetto Fratin fossero più o meno la stessa persona. In un petrostato funziona così.
Il problema di fondo, del quale la photo opportunity tra Meloni e Sultan Al Jaber è un buon reminder, è che gli Emirati ospiteranno anche la prossima Cop28 (30 novembre-12 dicembre), cioè il ventottesimo appuntamento con le conferenze annuali delle parti organizzate dall’Onu per affrontare i cambiamenti climatici, cioè il problema causato dalla stessa fonte energetica che il Paese ospitante ha tutto l’interesse a massimizzare fino all’ultima goccia estratta.
Visita di Giorgia #Meloni negli Emirati Arabi Uniti: incontro ad Abu Dhabi con il ministro dell’Industria e della tecnologia avanzata e presidente designato della Cop28, Sultan Al Jaber@ultimora_pol pic.twitter.com/RGEsTa1yYl
— Ultimora.net – POLITICS (@ultimora_pol) March 3, 2023
Dal momento che la divisione dei ruoli non è proprio il pilastro delle istituzioni emiratine, Sultan Al Jaber, oltre a essere ministro dell’Industria, Ceo dell’azienda petrolifera statale e inviato per il clima, sarà anche il presidente della Cop28. Quando la notizia è uscita, un paio di mesi fa, un pezzo della gloriosa e trentennale storia delle Cop è morta con essa. È stato un colpo alla già indebolita credibilità del processo Onu per guidare la lotta globale ai cambiamenti climatici.
Le Cop, oggi, sono uno strumento diplomatico allo stesso tempo insostituibile, privo di alternative e sempre più fragile. Nel 2015, al momento di massimo splendore, la Cop21 ci aveva dato l’accordo di Parigi. La gente piangeva nei corridoi: era stato fatto l’impossibile, riparando a vent’anni di fallimenti. Otto anni dopo, e con pochi avanzamenti reali da poter vantare da allora, la Cop28 sarà la Conferenza del petroliere. E non c’è da essere ottimisti, in questa riedizione energetica della favola della rana e dello scorpione.
Quello di presidente della Cop non è un ruolo cerimoniale, ma di sostanza politica. Esercita un mandato, indirizza il negoziato, sceglie cosa va affrontato e cosa va tralasciato. Alle Cop ovviamente non succede tutto quello che vuole il presidente, ma non succede niente che il presidente non voglia. Alla Cop27 di Sharm El-Sheikh il mandato del presidente Sameh Shoukry era concretizzare la creazione di un fondo danni e perdite (perché era giusto crearlo ma anche per la gloria regionale di Al-Sisi) e allo stesso tempo proteggere gli interessi dell’Egitto come esportatore di gas: missione compiuta.
Alla Cop26 di Glasgow il compito di Alok Sharma era mostrare al mondo la grandezza diplomatica del Regno Unito post-Brexit, portando risultati a qualsiasi costo. L’effetto è stato una marea di accordi non vincolanti stretti nei primi giorni, fuori dal processo negoziale, buoni per i comunicati stampa più che per la decarbonizzazione, e infatti un anno e mezzo dopo possiamo che sono stati quasi tutti ignorati (come quello sulla deforestazione).
Sono anni ormai che una Cop non produce risultati concreti sul piano dell’abbandono dei combustibili fossili. Nelle ultime edizioni si è parlato tanto, e giustamente, di finanza (anche il fondo “Loss and damage” rientra in questa impostazione) ma pochissimo di fonti di energia e di emissioni. E il rischio è che se parli ancora meno a Dubai. Difficile parlare di diete vegetali in una macelleria.
Gli Emirati rispecchiano una delle tendenze dell’energia globale: le rinnovabili crescono a un ritmo vertiginoso, ma non sostituiscono i combustibili fossili, si sommano a essi, rendendo solo più grande la torta dell’energia. Dal punto di vista climatico, però, così non c’è nessuna transizione: le emissioni non calano, le temperature crescono e la crisi climatica va fuori controllo.
Gli Emirati con la propria economia fanno esattamente questo, negli ultimi anni hanno investito pesantemente in fonti rinnovabili, senza però rinunciare affatto alla produzione di “oil & gas”. Ed è questa la direzione diplomatica che vedremo alla Cop28 di Dubai. Negli Emirati per altro c’è anche la sede di Irena, l’agenzia internazionale delle energie rinnovabili: la Cop28 sarà amica in modo equanime di eolico, fotovoltaico, petrolio e gas. Ma la transizione, appunto, non funziona così.
L’evento si tiene a novembre 2023, ma i segnali sono preoccupanti già oggi. Secondo un’inchiesta del Centre for climate reporting (Ccr) pubblicata dal Guardian, per altro condotta in modo abbastanza intuitivo (cioè su LinkedIn, gli Emirati non stanno nascondendo nulla), la Cop28 sta assumendo staff direttamente dalla Abu Dhabi national oil corporation. Quindi avremo personale che nel 2022 lavorava nella produzione di idrocarburi, nel 2023 lavorerà alla Cop28, nel 2024 presumibilmente tornerà a lavorare nella produzione di idrocarburi.
Un’altra inchiesta, in questo caso realizzata da Politico, ha scoperto che anche gli uffici saranno gli stessi. Praticamente Cop28 sarà un’etichetta di carta attaccata con lo scotch sopra la targhetta permanente “oil & gas”. Era difficile trovare una definizione più letterale di greenwashing.
Sultan Al Jaber ha mandato segnali di avere tutta l’intenzione di coltivare fino in fondo e in totale trasparenza il suo conflitto di interessi, non rinunciando alla sua posizione di Ceo di Abu Dhabi national oil corporation anche mentre sarà presidente di Cop28. Gli Emirati hanno commentato che la Conferenza sarà inclusiva e porterà «tutte le prospettive sul tavolo». Una frase che, a diversi mesi dall’inizio dell’evento e a pochi anni dalla chiusura della finestra per evitare gli effetti peggiori della crisi climatica, ha un suono sinistro.