Preservare il PianetaCome diventare onnivori sostenibili

Il professor Riccardo Valentini, ospite di Yeast Photo Festival per l’evento “Il clima nel piatto”, spiega come frenare le emissioni climalteranti già dal carrello della spesa

Riccardo Valentini @Yeast Photo Festival

Dal 28 settembre al 12 novembre, tra Lecce e il borgo salentino Matino, si terrà la nuova edizione di Yeast Photo Festival. Organizzato dalle associazioni culturali Besafe e ONTHEMOVE, con la direzione di Veronica Nicolardi e Flavio & Frank e la curatela artistica di Edda Fahrenhorst, la manifestazione animerà i luoghi con mostre, dibattiti, workshop, tavole rotonde ed eventi collaterali. Tra questi ci sarà l’incontro “Il clima nel piatto”. Protagonisti: lo chef Alessandro Borghese e il professore Riccardo Valentini, premio Nobel per la pace nonché membro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc). La coppia, per quanto bizzarra, ha un senso. Se Borghese è chiamato a dare suggerimenti di cucina sostenibile, Valentini svolgerà un compito molto più difficile: spiegare come mangiare meno e meglio può salvare il pianeta.

Cibo come atto politico e climatico
«Nonostante mangiare sia una delle attività più naturali fatte dall’uomo, il cibo ha un ruolo rilevante nello scenario climatico». Mentre parla, Riccardo Valentini conserva sempre una sottile vena nervosa nella voce. Forse perché rilasciare un’intervista su come rendere sostenibile il nostro nutrirci sembri un mero pour parler. Il trentasette per cento delle emissioni è prodotto dal food system, una catena che va dalle coltivazioni e allevamenti fino al piatto che laviamo a fine pasto. Il rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite ha mostrato che, a livello globale, le sole produzioni di carne e latticini sono responsabili di alimentare quasi un terzo delle emissioni di gas metano causate dall’uomo.

«Mangiare è un atto politico», dice, perché siamo noi a scegliere le produzioni da mandare avanti in base a ciò che mettiamo nel carrello. Comprese le stupide confezioni di banane avvolte in plastica. «Gli attori della filiera dipendono dalle nostre scelte. Il punto critico è avere una coscienza per fare scelte consapevoli, che condizionano più degli atti politici dei partiti. Chiedendo alimenti freschi, non inquinanti, cambio il sistema. Basta vedere cosa è avvenuto, almeno in parte, con il fast fashion». Insomma, il nostro cibo può diventare un atto politico e climatico.

Nutrirci fa male al pianeta: le cause
Ma quando il naturale e indispensabile atto del nutrirci ha iniziato a fare danni al pianeta? «Dal punto di vista globale, la storia dell’umanità inizia a pesare sul clima attraverso l’alimentazione agli inizi del Novecento con la scoperta dei fertilizzanti inorganici. Il pianeta vive un picco di crescita demografica e il petrolio offre energia a basso costo, motori termici, illuminazione e un mezzo per accrescere le produzioni agricole con minimo sforzo e massima resa. «Ciò ha provocato un picco di emissioni, che dura ormai da più di un secolo».

In Italia lo spartiacque è stato il dopoguerra. La paura della fame ha fatto sì che i genitori nati negli anni Cinquanta facessero di tutto per dar da mangiare ai figli, anche quando erano ipernutriti. Le madri inseguono i piccoli con la forchetta in mano per farli mangiare, offrendo soprattutto carne, prima consumata raramente. Tutto questo, in un mondo prevalentemente rurale, in cui l’insalata si coltivava nell’orto di casa e la carne era il premio messo in tavola di domenica.

Oggi ci sono molti più i cittadini che agricoltori. Anzi, più esseri umani in generale. «Se alla fine degli anni Sessanta c’erano tre miliardi di persone, ora siamo quasi a otto miliardi. Il che significa che la popolazione mondiale è più che raddoppiata nel tempo della vita di una persona. Prima della mia generazione non era mai successo. L’aumento delle emissioni che ci portiamo dietro è figlio di questi tre fenomeni».

Se fertilizzanti, paura della fame e aumento della popolazione mondiale sono cause sovrastrutturali, le scelte alimentari climalteranti sono state tante e siamo noi a farle. Il cibo non stagionale, il packaging, i trasporti, le serre, le pratiche agronomiche fatte senza pensare alle conseguenze sull’ambiente perché mancava la cultura sul tema. Tutto questo ci porta sull’orlo del precipizio su cui ci troviamo oggi.

I paradossi del food system
In un tempo in cui si affrontano anche carestie globali, ci sono tre paradossi del food system. In primo luogo, ci sono 820 milioni di persone malnutrite e trenta milioni di persone ogni anno muoiono per mancanza di cibo. Dall’altra parte, divisi da qualche parallelo sfortunato, ci sono 1,2 miliardi di persone che muoiono perché sovralimentate e trenta milioni di persone affette da obesità, diabete, malattie cardiovascolari. Malattie a lungo termine mortali e costose per i sistemi sanitari. Quindi sì, si può morire per eccesso di cibo. E poi c’è lo spreco alimentare, che interessa ancora circa il quaranta per cento di cibo prodotto nel mondo. «Tutto ciò che mangiamo ha prodotto emissioni. Gettarlo via è insostenibile».

Diventare onnivori sostenibili
Diventare onnivori sostenibili o, per dirla con una parola contemporanea, flexitariani è possibile. «Prima di tutto, dobbiamo cercare un’agricoltura più sostenibile e ridurre l’impatto delle produzioni. Oggi lo fanno le piccole aziende familiari, i giovani più evoluti».

«La consapevolezza ci porta a capire che ogni cibo ha un impatto sul pianeta. Per essere onnivori sostenibili dobbiamo mangiare meglio, in modo più bilanciato, consumando alimenti salubri. Il junk food fa male all’ambiente e alla salute. Una dieta equilibrata non è solo una scelta etica per il clima, ma anche per noi stessi. Le soluzioni culinarie non mancano». Infatti, il professor Valentini in collaborazione con la Fondazione Barilla ha partecipato al progetto Suetablelife, in cui si è lavorato a livello europeo per cambiare i costumi alimentari nelle mense, rendendoli sostenibili. Il progetto è diventato una piattaforma con oltre trecento ricette, disponibili per tutti, realizzate da chef di alto livello, belle da vedere, buone da mangiare e ricche di sapore.

Analizzando i vari stili di vita, Valentini conferma che essere vegetariani riduce l’impatto dell’alimentazione sul pianeta. Ma è necessario ricordare che se si consumano alimenti come la tapioca, importata dall’altra parte del mondo, non si sta facendo alimentazione sostenibile. «Conta il menu che si fa. Non va condannato il singolo piatto, ad esempio, solo la carne. Infatti, va detto che l’impatto dell’allevamento di polli e tacchini è minore rispetto a quello dei bovini. Il bilancio dell’impatto a tavola si fa quando la bistecca viene mangiata tutti i giorni. Bilanciare l’alimentazione fa dell’onnivoro un “animale sostenibile”. Bisogna ragionare con moderazione, forse la parola più importante da mettere nel menu dell’alimentazione contemporanea. È qui che si trova anche la gioia».

Il menu della politica
Trovare soluzioni all’impatto ambientale della nostra alimentazione è una delle principali leve di business nel settore agroalimentare. Tuttavia, la politica sembra miope in tal senso. Ne è una prova la posizione del ministro Lollobrigida contro la carne sintetica. Che resta un tema da non accettare senza porsi domande. Infatti, secondo Valentini ogni innovazione va approfondita e studiata, per valutare sia la sostenibilità ambientale sia gli effetti sulla salute umana. Inoltre, va analizzato l’impatto degli impianti. Ne è un esempio l’industria degli insetti. «Sono allevati, ma non sono catturati. Vengono prodotti con bioreattori che, in caso di rottura, potrebbero liberare milioni di insetti con conseguenze impattanti».

Ma il dubbio più forte non è sulla sicurezza dell’innovazione, quanto sul perché il riscaldamento globale non è mai nelle priorità della politica. «Il cambiamento climatico richiede una profonda trasformazione dell’economia di una società. Ci sono grandi interessi economici dietro la transizione ecologica, situazioni consolidate da smobilitare. Basti pensare alle auto elettriche. Un secondo freno è connaturato alla nostra società e si chiama paura del futuro. Abbiamo paura del cambiamento, del suo impatto sul nostro stile di vita. Ma è proprio il cambiamento che rende la società più forte, che crea nuove opportunità, nuovi business e modelli per rispondere ai pericoli che il genere umano ha di fronte a sé».

Il clima non è come il Covid. La pandemia produceva un impatto emotivo sul singolo. Col clima è più difficile. I fenomeni estremi passano, si soffre. L’impatto è indiretto, ma di lungo periodo ed è diventato irreversibile. Anche il clima miete morti, circa sessantamila in un solo anno, solo in Europa, di cui un terzo in Italia». Sta a noi premere il pedale del freno.

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