“La flavescenza dorata (FD) è una fitoplasmosi provocata dai fitoplasmi del gruppo 16Sr V (sottogruppi C e D). Essa appartiene al gruppo dei giallumi della vite. Il nome viene attribuito dalla colorazione gialla dorata che assumono le foglie, i tralci ed i grappoli di vitigni a bacca bianca una volta colpiti. L’agente causale della malattia è il Candidatus Phytoplasma vitis, un fitoplasma che si insedia nei tessuti floematici dell’ospite e ne provoca il blocco della linfa elaborata, inducendo uno squilibrio delle attività fisiologiche dalla pianta stessa”.
Ecco, questa la definizione che Wikipedia dà della flavescenza dorata: letta così sembrerebbe una delle tante e strane malattie che possono colpire la vite, quello che questa tecnica e sterile descrizione non dice e non fa capire è la gravità del problema che attualmente si presenta in tutta Europa, non solo in Italia, e che sta dando dei grossi grattacapi ai viticoltori e ai produttori di vino.
Com’è nato il problema?
Facciamo però un passo indietro e cerchiamo di capire come è nato questo problema. La questione è infatti complessa e non sempre chiara.
Come molte altre importanti malattie della vite, anche la FD è legata in qualche modo alla globalizzazione. Ricordiamo i funghi come la peronospora (ne abbiamo parlato qui) o l’oidio, arrivati dall’America attraverso il trasporto di materiale vegetale infetto (viti ornamentali, per esempio). Ricordiamo il poco simpatico insetto che prende il nome di fillossera, anch’esso arrivato via mare dagli Stati Uniti e diventato in poco tempo la più grande piaga viticola di tutti i tempi che a cavallo di fine ’800 inizio ’900 ha stravolto e modificato per sempre il panorama viticolo europeo e non solo (ne parleremo più in dettaglio in futuro). Oppure in tempi più recenti la Drosophila suzukii arrivata dal sud-est asiatico, un moscerino della frutta che ha creato e crea grossi danni su molte colture frutticole a partire dal 2008.
Torniamo però a parlare della FD. Come dicevamo prima, in questo caso la questione si complica: infatti la malattia nella vite era presente ed era conosciuta già da molti anni come endemica (non a larga diffusione, costantemente presente e tipica in zone circoscritte), ma non suscitava grande allarmismo in quanto non tendeva a diffondersi e i pochi focolai si spegnevano o venivano eliminati con l’espianto e la distruzione delle piante malate.
Ma qualcosa è andato storto
Fin qui tutto bene direte voi, infatti era esattamente tutto sotto controllo, visto che la malattia è provocata da un fitoplasma, una sorta di batterio rudimentale senza parete cellulare che proprio per questa sua caratteristica non riesce a sopravvivere fuori dal flusso linfatico della pianta ospite o fuori da un possibile vettore. Un vettore è in sostanza una sorta di “zanzara” delle piante, punge infatti le viti per succhiarne la linfa e cibarsi, ma nel farlo si infetta anche con possibili patologie e le trasporta su altre piante sane, esattamente come fanno le zanzare con la temibile malaria.
Detto questo, in Europa l’unico vettore conosciuto per la FD era un insettino dalla strana forma che prende il nome di “Insetto Lanterna europeo” (Dictyophara europaea) che però solo occasionalmente si nutriva sulle viti e ancor più raramente trasmetteva il fitoplasma della FD dalle piante spontanee alle vite.
Tutto ciò era vero fino agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, quando sulla scena si presentò un vettore molto più temibile e molto più specializzato proveniente anche in questo caso dall’America del Nord, il famigerato Scaphoideus titanus (devo ancora capire perché gli abbiano dato un nome così altisonante, forse prevedendone l’effetto futuro sulla viticoltura).
Ed eccoci arrivati alla fine della storia, avevamo sostanzialmente in casa la polvere da sparo ma fortunatamente non avevamo la miccia, finché non ce l’abbiamo portata noi. I primi casi si registrarono in Francia nel 1955, mentre in Italia fu rilevata per la prima volta nel 1963 in Liguria, anche in questo caso una terra di confine e quindi di passaggio.
Dagli anni ’60 a oggi molto si è studiato e molto si è capito sulla FD e sul suo vettore principale, ma purtroppo non abbastanza, non in maniera sufficientemente efficace e non tempestivamente, perché la realtà dei fatti è che nel tempo questa è diventata una delle clorosi (giallumi) più gravi che colpiscono la vite, poiché provoca gravi perdite per il settore vitivinicolo, incidendo negativamente sulla quantità e sulla qualità del prodotto, quindi dell’uva.
Allo stato attuale, infatti, la flavescenza dorata è diffusa in tutta Europa, provocando ingenti danni economici, produttivi e anche storico-paesaggistici se vogliamo dirla tutta.
E adesso cosa si fa?
Per quanto riguarda i danni produttivi ed economici è tutto molto facile da capire, le piante colpite da questo fitoplasma producono poco e male e vanno incontro a un lento deperimento che ne provoca una sorta di “nanizzazione”.
L’unico modo per risolvere il problema, con le conoscenze attuali, è quello di sradicare la pianta infetta, portarla fuori dal vigneto e bruciarla nel minor tempo possibile dopo la comparsa o l’individuazione dei sintomi, in modo da evitare che il vettore se ne nutra e possa diffondere ulteriormente il problema. Operazione che è inoltre obbligatoria per legge: se infatti questa operazione non viene effettuata, e la percentuale di piante malate nel vigneto continua ad aumentare, si può arrivare anche allo spianto obbligatorio di tutto il vigneto e alla distruzione del materiale infetto.
Si capisce quindi quanto possa costare sostituire ogni anno diverse viti in un vigneto già produttivo, operazione che va eseguita quasi sempre a mano, che comporta una difformità di età fra viti già produttive e nuove barbatelle (viti giovani) che vanno gestite in maniera separata, il tutto da sommare alla perdita produttiva (ci vogliono in media tre anni per avere una prima produzione sulle nuove viti) e alla perdita qualitativa (le viti mature e/o “vecchie” producono tendenzialmente qualità più costanti rispetto a quelle giovani).
Come scritto prima, a tutto questo si aggiunge quello che abbiamo chiamato come un danno storico-paesaggistico. Alcune zone molto colpite da FD sono infatti caratterizzate da situazioni di viticoltura “eroica”, costituite da impianti di vite molto vecchie e ad alto valore paesaggistico, storico e genetico che già rischiavano di scomparire, a causa dell’abbandono dovuto al grande impegno richiesto per il loro mantenimento e lavorazione, e che ora, afflitti da questa piaga, sembrano destinati a essere persi per sempre.
L’abbandono di alcune zone viticole o di alcuni appezzamenti ha inoltre molto spesso un altro risvolto negativo: le viti infatti vengono letteralmente abbandonate e non gestite, non vengono spiantate per fare spazio ad altre colture, ma semplicemente lasciate a loro stesse, anche per anni, e fungono pertanto da incubatori della malattia che qui, non osservata e di conseguenza non debellata, può proliferare ed essere trasportata altrove dallo Scaphoideus come suo vettore.
Ma quindi, come ci si difende?
Abbiamo capito, come descritto poco fa, che una volta contratta la malattia dal vettore la vite è sostanzialmente spacciata. La via migliore per difendersi da questo problema è come sempre la conoscenza e l’informazione.
Durante la sua diffusione in Europa si è infatti cercato di creare delle zone di monitoraggio, controllo e tamponamento; delle zone chiamate “cuscinetto” in cui l’osservazione dei sintomi della malattia e del vettore e le conseguenti catture dell’insetto o lo spianto delle viti malate dovevano essere attente, precise e tempestivamente comunicate agli enti incaricati.
Come spesso succede però, l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle durante l’emergenza Covid, i cosiddetti cordoni sanitari fanno acqua un po’ ovunque e questo ha portato all’inesorabile avanzamento della FD dalla Francia verso tutta Europa.
Allo stato attuale la risposta per i viticoltori rimane sempre la stessa: conoscenza del vettore, della sua biologia e del suo ciclo vitale, monitoraggio della popolazione all’interno del proprio vigneto utilizzando delle trappole cromotropiche (questo insetto è infatti attratto dal colore giallo e quindi si utilizzano dei cartoncini gialli cosparsi di uno speciale mastice che imprigiona gli insetti al contatto, una sorta di “carta moschicida”). Alla luce di questi dati è infatti possibile utilizzare dei trattamenti insetticidi per abbattere la popolazione dell’insetto vettore, evitando che proliferi e che quindi diffonda di conseguenza la malattia.
A rendere ancora più spigolosa la situazione ci sono però altri fattori da prendere in considerazione. Negli ultimi anni l’ormai conosciuto Scaphoideus ha raggiunto un ciclo vitale sempre più lungo a causa del cambiamento climatico e delle temperature più miti, i trattamenti con insetticidi sono (giustamente) sempre meno “potenti” e creano sempre meno residui nell’ambiente, andando a degradarsi molto velocemente grazie all’effetto dei raggi solari o naturali degradazioni delle molecole attive. Il rovescio della medaglia però è che ciò li rende meno impattanti per la fauna e gli insetti utili, ma anche meno efficaci sul vettore o l’insetto da colpire e ne richiede quindi un utilizzo molto più preciso, oculato e informato.
In conclusione
Eccoci qui, anche questa volta abbiamo affrontato un altro piccolo tassello di questo fantastico e difficile mondo. In conclusione, sperando di avervi ancora una volta dato un punto di vista obiettivo e preciso riguardo a una delle tante difficoltà legate a uno dei lavori più belli del mondo, vi esorterei a comprare una bella bottiglia di vino, informandosi prima della sua provenienza, di come è stata prodotta, non importa se in agricoltura biologica, convenzionale, biodinamica o altro, l’importante è che sia prodotta con passione e coscienza.
Apritela in compagnia di chi vi fa più piacere e, mentre la sorseggiate, pensate che quasi sempre in quel bicchiere che avete in mano c’è molto di più di un semplice succo di uva fermentato e che, in fin dei conti, il prezzo che viene richiesto non è poi così esoso, soprattutto se paragonato ad altri tipi di bevande letteralmente “fabbricate” che ingurgitiamo molto spesso senza farci tante domande…