L’altro giorno stavo guardando una tv locale e c’era un cartomante. Mi chiedevo chi mai si facesse ancora fare le carte da quando esistono i social, ma ecco che prende la telefonata di una donna di trentasette anni, lei gli spiega che ha un marito di quarantaquattro anni ed è da molto tempo che stanno provando ad avere un figlio, figlio che non arriva. Gli racconta che sta facendo delle cure in ospedale per la fertilità, e gli chiede se riuscirà mai a rimanere incinta. Lui le risponde che non può dare informazioni sulla salute perché ha un’etica, al contrario dei consulenti su Instagram. Fa un giro di carte veloce, le dice che avrà un figlio, lei piange a dirotto, mette giù.
Perché la signora ha chiamato il cartomante invece che la fertility coach? Forse ha finito i soldi per la connessione internet? Ed è così che siamo arrivati al secolo dei consulenti. C’è stata una frammentazione della genitorialità in piccolissimi cocci dove ogni coccio è la parte di responsabilità che siamo disposti a sacrificare. Non so da dove parta questa piega, fatto sta che nessuno è più in grado di crescere un figlio senza un osteopata, o di dormire senza una tata della nanna, o di educare un bambino senza un coach del gentle parenting.
Senza voler fare abuso di professione sociologica, secondo me ha a che fare con tutta una serie di cose, tra cui: pensare che con un figlio si possa fare la vita di prima, il nozionismo che è alla portata di tutti, il fallimento dell’approccio medico negli ospedali, pensare che fare la mamma sia un lavoro, l’accesso gratuito a qualunque tipo di informazione, la fine del principio di autorità.
I genitori non vogliono essere curati, vogliono essere capiti. Sui social le persone scrivono per avere un’assoluzione e non una soluzione, la ricerca dell’approvazione riguarda tutti, ma soprattutto riguarda quelle persone che si auto percepiscono voci del dissenso, poi un giorno faremo i conti con le rivoluzioni portate avanti con l’applausometro. Negli ultimi anni c’è stata la creazione continua di bisogni che non sapevamo di avere, e per ogni bisogno esiste qualcuno disposto a vendertelo.
A questo punto ho fatto una cosa che non avrei mai voluto farei: ho fatto una telefonata. Inaspettatamente non ho chiamato il cartomante, ma ho parlato con l’avvocato Camilla Fasciolo, che da un po’ di tempo si spende insieme ad altre mamme e professionisti e medici contro l’abuso di professione dei cosiddetti coach, che insomma quello che alcuni fanno sarà mica legale. Camilla mi spiega che c’è una legge che tutela chi fa una professione che non è regolamentata da un ordine, la legge 4/2013, e che questa landa desolante che sono i social si è riempita di persone laureate in Economia o Dams o Teatro Danza che sconfinano nelle attività tipiche del sanitario.
In breve: se io faccio l’organizzatrice di armadi non ci sarà nessun ordine a cui rispondere se non a quello di Marie Kondo, se invece sono una laureata in giurisprudenza e mi metto a farmi pagare settecentocinquanta euro a consulenza per spiegarti come funziona l’ovulazione, insomma. Camilla, quindi, ha fatto un esposto in Procura segnalando dei profili, giusto per capire se è abusivismo o no. Mi piacerebbe anche sapere quanto gli ordini professionali tollerino una concorrenza forse sleale o forse no, ma non vorrei finire come Assange.
In un’epoca dove è stato abolito l’ordine professionale di gravità delle cose per sostituirlo con il più alla portata di tutti concetto di benaltrismo, nessuno dovrebbe stupirsi dalla laureata in marketing che fa la coach del lutto perinatale, o del “facilitatore” per bambini neurodivergenti che fa corsi di meditazione, o dei personal trainer che si occupano di disturbi alimentari.
Un grande comune denominatore di questi profili è che, come qualifica, spesso scrivono “mamma”. Fare la mamma non è una professione, non si prende una laurea in mamma, non è sinonimo né di empatia né di buona fede, è solo un modo per dire: sono come voi, non potrei mai approfittarmene. E invece. Io capisco che la laurea sia un concetto sopravvalutato, capisco anche che il mondo sia perlopiù abitato da persone professionalmente incapaci, ma la questione adesso sono quelli che pagano.
Perché una persona dovrebbe affidare la salute propria o dei propri figli a qualcuno laureato in economia aziendale? La mia risposta l’ho già scritta: le persone vogliono essere capite, non curate, ma a questo punto converrebbe fare la ricarica Satispay a un’amica.
Viviamo come abuso e trauma qualunque filo meno di empatia da parte dei medici, come se tra l’altro l’empatia avesse mai guarito qualcuno: vengono segnalati i ginecologi che consigliano di dimagrire o i pediatri che dicono che forse è il caso di smettere di allattare che il bambino va alle elementari, ma troviamo altresì ragionevole che un’ostetrica ci dica di portarci a casa la placenta.
Il secolo dei consulenti è stato possibile perché qualcuno ha deciso che la cosa migliore da dire a una donna con un figlio fosse quella di tornare a partorire nelle caverne, che ciò che è naturale è buono, e quel qualcuno saranno stati i tagli alla sanità o l’Oms.
C’è poi un grado di disperazione che riguarda la fertilità, o il lutto, o le patologie, o il sonno, che non risponde a nessun grado di buon senso, cosa comprensibile, ma quello che non è comprensibile né tollerabile è fare soldi sulle paure delle persone. Pediatra Carla, i cui libri credo vendano tanto quanto quelli di Vannacci, qualche giorno fa ha pubblicato un video su Instagram dove il dottor Cinquetti, pediatra e neuropsichiatra, parlava del sonno dei bambini, dove diceva semplicemente che ogni bambino ha un carattere e che alcuni non dormono, ma da quel momento lo sport preferito di Instagram è diventato il lancio dello straccio tra medici e consulenti del sonno, e poi dicono che il problema sarebbe Estivill.
Siccome io non ho mai dormito per quattro anni di fila, e vi prego di prendere il “mai” in senso letterale, non parlerò di quelli che sostengono che il sonno si possa insegnare, dicendo implicitamente che sei una pippa se tuo figlio non dorme, perché altrimenti dovrei richiamare l’avvocato Fasciolo per chiederle il gratuito patrocinio.
La teoria dell’essere confortati invece che curati ha un baco come ogni format: come faccio a credere che qualcuno ci tenga a me se lo pago? Non sono attività pro bono, non è beneficenza, non sono consigli gratuiti: è come con le mamme influencer che raccontano di quanto si siano trovate bene con tale servizio di psicologi online o tali marche di biscotti, e ci credo che ti sei trovata bene, sei pagata per dirlo. Cerchiamo perlomeno di dare soldi a gente che può essere radiata da un ordine professionale se ci procura un danno.