La montagna incantataPiù che il malato d’Europa, la Germania è il più europeo dei Paesi membri

La guerra in Ucraina ha costretto Berlino a cercare una nuova postura internazionale e a rivedere le sue strategie energetiche, ma i nodi tedeschi sono questioni aperte in tutta l’Ue: la perdita di sicurezza del ceto medio, l’invecchiamento della popolazione, i flussi migratori, la transizione ecologica

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In un recente articolo, l’Economist si è chiesto se la Germania non dovesse, di nuovo, essere considerata «il malato d’Europa», riprendendo una tesi che il settimanale britannico avanzò nel 1999, anno in cui la Bundesrepublik attraversò una fase di rallentamento economico. Pur non esente da una certa perentorietà anglosassone, l’articolo era abbastanza realista nell’elencare gli elementi che giustificano un tale interrogativo: la guerra in Ucraina ha costretto la Germania a cercare una nuova postura internazionale, oltre che a rivedere profondamente le sue strategie energetiche, con ovvie conseguenze economiche e industriali.

L’attuale governo – formato da socialdemocratici, verdi e liberali – è attraversato da forti conflitti interni che ne rallentano l’azione. Unito all’inflazione e alla perdita del potere d’acquisto di larghe fette della popolazione, questo scenario sta determinando un aumento dei consensi dell’estrema destra.

A complicare il tutto, si è aggiunta la crisi cinese, che può avere effetti rilevanti sulla Germania, che è attualmente in recessione tecnica e il cui scambio commerciale con Pechino, nel 2022, ammontava a quasi trecento miliardi di euro. Anche per questo, Berlino esita a fare la voce grossa col dragone nonostante, la complicata situazione internazionale: si pensi al concetto di de-risking, coniato da Olaf Scholz per indicare la necessità di ridurre le dipendenze strategiche, e oggi ancora molto ambiguo e senza una forte direzione politica.

In questo scenario, Scholz sta provando a muoversi su più fronti: mentre aumenta la spesa in welfare per le categorie di reddito più vulnerabili, il governo mira ad allentare la pressione sulle imprese, a cui si richiede non solo di compiere la transizione ecologica e digitale ma di farlo riducendo le dipendenze dalla Cina, potenzialmente pericolose.

È in questo quadro che va inserito il Deutschland-Pakt, i dieci punti presentati la settimana scorsa da Scholz alla riapertura del parlamento per rinnovare le infrastrutture e abbattere la burocrazia, per rendere meno macchinoso possibile continuare e velocizzare la transizione ambientale e digitale.

Se queste priorità convergeranno o confliggeranno, lo vedremo nei prossimi mesi. Intanto, però, è facile notare come la necessità di tenere insieme piani diversi e in potenziale contraddizione non è una caratteristica solamente tedesca.

Se oggi la Germania ci appare come il malato d’Europa è perché su di essa si sono compendiate tutte le questioni aperte dal conflitto in Ucraina: è stata investita più di altri dalla crisi del gas russo; ha subito più di altri il rallentamento degli scambi globali; la sua dialettica interna ne ha risentito più di quanto avvenuto altrove, ha visto più di altri stravolto il suo ruolo geopolitico. Più che il malato d’Europa, il più europeo dei Paesi europei.

I nodi tedeschi sono nodi europei: la perdita di sicurezza del ceto medio necessita di politiche sociali in grado di preservare la stabilità politica interna; l’invecchiamento della popolazione e l’imminente pensionamento dei baby boomers richiedono un ripensamento della spesa pubblica e della fiscalità che non sacrifichi il welfare, oltre che una politica migratoria lungimirante (tema su cui la Germania, diversamente dalla media Ue, si è già mossa); la transizione ecologica dovrà accelerare anche attraverso la facilitazione di investimenti e il supporto ai settori critici; la digitalizzazione dovrà appoggiarsi allo sviluppo di nuove competenze e alla riqualificazione di figure professionali.

Se oggi Berlino è additata a vista dagli altri Paesi europei è anche perché smaschera vulnerabilità che questi, in fondo, sentono proprie. Siamo tutti più tedeschi di quanto siamo disposti ad ammettere.

Mario Draghi, in un recente intervento sull’Economist online, ha ammonito come il ritorno alle politiche pre-pandemia indebolirebbe ulteriormente l’Ue, che oggi anzi ha bisogno di essere rafforzata nei suoi poteri centrali. Il punto, dunque, non è tanto se la Germania sia in grado di salvare sé stessa, ma quale ruolo può giocare il caso tedesco per salvare l’Europa.

Durante le crisi recenti, Berlino ha svolto un ruolo chiave nel rivedere vecchi dogmi, anche quando li aveva difesi in prima linea (si pensi al covid e all’apertura a una forma embrionale di debito comune avutasi con NextGenerationEu, per la quale la Germania è stata determinante). Di fronte a una crisi sistemica, la capacità europea e tedesca di uscirne efficacemente dipenderanno dalla reale disponibilità ad attraversare trasformazioni profonde.

La salvezza della Germania e quella dell’Europa vanno di pari passo, e il conflitto in Ucraina ha fatto da detonatore a una serie di limiti europei che si assommavano da tempo: la riforma del Patto di Stabilità, l’introduzione di una reale politica estera comune, la capacità di non retrocedere sulla transizione ambientale, il sostegno al reddito delle fasce in difficoltà, l’aumento dei poteri centrali per non subire la paralisi da chi, dall’interno, vuole un’Ue meno in grado di agire.

A differenza del 1999, la fase odierna travalica i confini nazionali e, in una fase in cui, più del solito, l’economia è politica, la “malattia tedesca” interroga l’Europa tanto quanto Berlino. Sarebbe sbagliato rilegarla a un quadro puramente economicistico, perché essa rimanda ai temi su cu si giocherà il futuro dell’Ue nei prossimi anni, e ciò che accadrà in Germania sarà parte integrante di questo processo.

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