«De-risking» invece di «de-coupling». Negli ultimi giorni, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ripetuto spesso questo concetto, a corredo dell’incontro con il presidente del Consiglio Cinese Li Qiang. In effetti, la minimizzazione del rischio riassume abbastanza bene l’atteggiamento avuto nell’ultimo anno dalla Germania nei confronti della Repubblica popolare: non interrompere i rapporti commerciali pur nell’appartenenza al blocco occidentale, con la diversità politica e culturale che ciò si porta dietro. Un equilibrio tanto fragile e difficile quanto, per molti versi, necessario (non solo per Berlino).
Da una parte, la Germania non può rinunciare a un partner fondamentale per la sua economia; dall’altra, il conflitto in Ucraina e il clima internazionale mettono sempre più in bilico i rapporti. La scommessa, quindi, è riuscire a bilanciare la tutela dell’economia tedesca con la necessità di fornire garanzie ai partner europei e atlantici.
Già qualche mese fa, in un’editoriale pubblicato su Politico Europe in occasione di una sua visita a Pechino, Scholz scriveva che «la Germania non ha interesse a vedere nuovamente una divisione del mondo in blocchi»: un chiaro riferimento al fatto che seppur la Cina sia per Berlino, in linea con la definizione europea, «partner, competitor e rivale», la Germania (e per Scholz l’Europa) non può fare a meno di dialogare con essa, non solo per difendere i propri interessi commerciali ma anche per isolare la Russia.
Per capire meglio in cosa si sostanzi il de-risking possiamo guardare ad alcuni eventi degli scorsi giorni. Innanzitutto, la presentazione, da parte del governo tedesco, della nuova Strategia di sicurezza nazionale: un documento in cui si riconosce l’aumento delle tensioni internazionali, indicando la Russia come la principale minaccia alla pace globale, ma non si menziona Taiwan e si glissa molto sulla Cina. Se è vero che Pechino sarà oggetto (presto?) di un documento apposito, è evidente però l’intenzione di non alzare i toni
In secondo luogo, l’annuncio di un investimento di oltre trenta miliardi da parte di Intel in Germania per la produzione di semiconduttori, di cui circa un terzo arriverà da sovvenzioni statali. Lo stesso Scholz ha affermato che si tratta del «più grande investimento diretto estero nella storia della Germania», e non è difficile capire l’importanza strategica dell’operazione, in questo momento: non a caso, le parole “resilienza” e “resistenza” sono state incredibilmente frequenti nei commenti alla vicenda, tanto da parte del cancelliere quanto di Intel stessa.
Da una parte, dunque, si dialoga e si evita di alzare i toni, per non alimentare una contrapposizione; dall’altra, però, ci si muove nell’ottica di una sempre maggiore autonomia, che schermi da eventuali sorprese e che renda meno vulnerabili.
È bene notare che questa strategia non è solo tedesca: si pensi che anche la Francia ha varato investimenti con Intel, mentre la strategia di sicurezza economica europea, presentata dalla Commissione europea questa settimana, pur non nominando mai esplicitamente la Cina getta le basi per alcuni limiti al commercio su materie e tecnologie strategiche che potrebbero finire con l’avvantaggiare «Paesi che preoccupano», secondo l’espressione usata da Ursula von der Leyen in conferenza stampa.
L’invasione dell’Ucraina, del resto, ha mostrato i rischi (economici, ma più profondamente politici) della dipendenza energetica e tecnologica da soggetti portatori di priorità e valori diversi da quelli europei, orientando tutti gli sforzi comunitari a una sempre maggiore autonomia. Un’esigenza condivisa soprattutto dai Paesi membri più rilevanti sul piano economico, come Francia, Germania e Italia, che non a caso intraprendono anche azioni unilaterali per ripararsi dalle lungaggini europee.
In questo senso, sembra di poter dire che l’Unione europea e alcuni suoi Stati membri stanno evolvendo in maniera sempre più marcata verso un’economia in cui i settori strategici sono valutati tali soprattutto per la loro valenza geopolitica. Una cultura da tempo diffusa in Cina, e alla quale non sono estranei nemmeno negli Stati Uniti, abituati a esprimere chiaramente il piano politico dietro alcuni comparti (si pensi alla vicenda Nord-Stream 2), ma che a lungo ha faticato ad affermarsi in Europa.
È chiaro che non siamo di fronte a uno state capitalism che subordini investimenti e produzione alle necessità strategiche, ma è evidente che questa fase sta segnando il volto dell’Europa e l’identità della sua azione come soggetto politico internazionale più di quanto fosse mai avvenuto prima. Coordinare le comprensibili spinte nazionali unilaterali sarà sempre più centrale per Bruxelles, ormai pienamente coinvolta in una trasformazione che ne potrebbe cambiare il suo ruolo sulla scena globale, e chiamata a favorire un dialogo ovviando, al tempo stesso, alle vulnerabilità che troppo spesso l’hanno caratterizzata.