Nell’anno del Signore 730 l’imperatore romano d’Oriente Leone III Isaurico promulgò un editto che ordinava la distruzione delle immagini sacre. Convinto che le calamità da cui era flagellato l’impero, da ultimo un terribile maremoto, fossero conseguenza dell’ira divina per gli eccessi idolatrici del suo popolo, vietati dalla legge mosaica, il basiléus bizantino avviava così una delle fasi più calde della ricorrente battaglia iconoclasta.
Non sapremmo dire se le afflizioni, naturali e non, che tormentano il nostro presente siano dovute a una celeste collera similmente cagionata, ma è indubbio che con le icone oggi si sta esagerando. Non con il referente, ma con la parola che lo significa. E più ancora con l’aggettivo che ne deriva.
“Iconico” è una di quei lessemi che rimbalzano da una bocca all’altra, spesso senza passare dal cervello. Un fenomeno diffuso nella comunicazione verbale: si pronuncia una parola di cui non si conosce bene il significato – si crede di intuirlo, magari – e si confida che il destinatario del messaggio lo perfezioni, aggiungendo di suo quel che difetta. In questo modo l’area semantica della parola si dilata, si aggroviglia, si gonfia: e rischia di esplodere. Si arricchisce, impoverendo la comprensibilità.
Vediamo, intanto, il sostantivo. “Icona” viene dal greco eikón che significa immagine, ritratto, apparenza, e anche simulacro, forma immaginaria, fantasma (il fantasma della comunicazione, in questo caso…). La radice è la stessa del verbo éoika, sono simile, rassomiglio. Fondamentalmente, secondo tutti i vocabolari della lingua italiana, le icone sono immagini sacre rappresentanti Cristo, la Madonna o i santi, in particolare quelle (contro le quali si scagliò Leone III) dipinte su tavolette di legno o lastre di metallo e decorate con oro, argento e pietre preziose, tipiche della tradizione artistica bizantina e poi slavo-ortodossa.
Esiste però anche un’accezione più specialistica, fissata da Charles Sanders Peirce, a cavallo tra Otto e Novecento, nella tripartizione semiologica del segno in icona (quando c’è un rapporto di somiglianza con l’oggetto denotato: per esempio un ritratto, un’illustrazione, una mappa, un emoticon – composto aplologico di emotional e icon), indice (quando il segno è realmente determinato dall’oggetto: una banderuola che indica la direzione del vento, «un uomo dalla gambe arcuate, vestito di velluto, con gli stivali e una giacchetta, indicazioni probabili che si tratta di un fantino») e simbolo (quando il rapporto con l’oggetto è mediato da un’associazione di idee: i segni del linguaggio, della matematica, i segnali stradali).
Inclina piuttosto a quest’ultima accezione che non a quella propria l’uso oggi più comune della parola icona, con cui tutti noi ci riferiamo alle piccole immagini presenti sugli schermi di pc, tablet e telefonini e che indicano simbolicamente file, app o comandi vari ormai parte integrante della nostra quotidianità. Anche questo significato è registrato dai dizionari. Mentre, stranamente, non è ancora registrato un utilizzo corrente da diversi anni, che – potremmo dire, nella terminologia di Peirce – sta a metà tra la valenza iconica e la valenza simbolica: quello per cui si può qualificare come icona qualsiasi oggetto, persona, personaggio, opera artistica, letteraria o musicale eminentemente rappresentativi di una categoria o di un movimento più vasto o che vengono assunti come punto di riferimento di una comunità di persone che in essa per qualche tratto si riconosce. In questo senso si parla, per esempio, di Raffaella Carrà come icona gay, della Venere di Botticelli come icona della bellezza rinascimentale, di Frida Kahlo come icona femminista, di Muhammad Ali come icona della battaglia per l’emancipazione degli afroamericani, e così via (per ogni categoria di moltiplicano i pretendenti al titolo).
A questa accezione molto estensiva del sostantivo – e non all’accezione primaria di immagine sacra – si riallaccia l’aggettivo, sulla scia del fortunato parente anglofono iconic. Senonché questo aggettivo va incontro a un’ulteriore avventurosa estensione, e passando attraverso l’idea di una immediata e generalizzata riconoscibilità, spinta fino all’identificazione tra segno e oggetto denotato (l’iconico cavallino rampante che identifica la Ferrari, l’iconico coccodrillo che identifica il marchio Lacoste), sfuma via via i suoi contorni semantici per diventare un puro qualificativo enfatico svuotato di effettivo senso proprio.
Qualche giorno fa, nell’assumere la carica di capo delegazione della Nazionale, Gigi Buffon, uno dei più grandi portieri di tutti i tempi, ha spiegato di non avere organizzato una partita d’addio al calcio giocato perché «le trovo belle e iconiche, ma malinconiche». Che cosa avrà voluto dire di preciso con l’aggettivo “iconiche” non è dato sapere, l’interpretazione è affidata alla libera immaginazione di ciascuno.
Iconici possono essere un cantante o una sua hit, un attore o la scena di un suo film, la frase di un personaggio famoso, un’opera artistica, letteraria o musicale neppure rappresentativa di una categoria più vasta ma soltanto del suo autore: in questo caso l’aggettivo sta per qualcosa come “celeberrimo”, “notissimo”, “più significativo”, “esemplare”, “capitale” e così via enfatizzando. Ma che cosa vuol dire che un pantalone, un abito sartoriale, un gilet, un costume da bagno femminile, il badge di un costume da bagno maschile, un foulard, un cosmetico, un diffusore, un cofanetto di prodotti per l’igiene personale, un trattamento di bellezza, il gadget (a 50 euro!) di un aperitivo, una collezione di olii siciliani, le finiture di un cardigan sono “iconici”? (Tutti casi di millantate iconicità ricavati dalla rete, prime quattro videate di Google alla ricerca “iconico”).
Quando non si sa trovare l’aggettivo giusto, ecco pronta la soluzione più cool, la parola enigmaticamente evocativa che nella reiterazione sillabica (i-co-ni-co) sprigiona suggestioni fonosimboliste, la chiave d’accesso a un mondo misterioso di lusinghe inespresse, che vuol dire tutto perché non vuol dire niente.
Ma si dà anche il caso – tanti casi, di seguito quelli reperiti nelle nostre quattro videate di Google – che l’aggettivo, forte del suo arcano appeal, diventi un sostantivo, il nome di un prodotto o di un produttore. E abbiamo così lo spumante extra dry Iconico, “le pizze e le altre specialità” di Iconico, la pizzeria Iconico, i gelati Iconico (e qui ci può stare, se si toglie la i), il mascara Iconico, la linea di abbigliamento infantile Iconico, i piumini da donna Iconico, i gioielli Iconico, l’abito femminile Iconik… e fermiamoci qui, anche se le videate sarebbero ancora innumerevoli.
Tutto è o può diventare iconico, quante icone, troppe icone, un’overdose di iconicità. Basiléus Leone, dove sei?