La campagna elettorale è finita da un pezzo e il governo non può più sbandierare promesse e proposte che rimarranno solo su carta. Con la legge di Bilancio è venuto il momento di far quadrare i conti. E i conti, al momento, non tornano. O quantomeno non sono così semplici. Allora la legge di Bilancio sarà magrissima, guarderà soprattutto alla prima metà dell’anno – quella che porterà alle elezioni Europee – e quindi rispetto ai vecchi slogan di Palazzo Chigi sarà praticamente dimezzata, nei numeri e nel tempo, quindi anche negli effetti.
«Ogni misura, se possibile, dovrà trovare una copertura all’interno dello stesso capitolo di spesa, anche se questo dovesse comportare tagli e rinunce di ministri e partiti di maggioranza», si legge su Repubblica, nell’articolo firmato da Valentina Conte.
Si avrà un quadro più chiaro a partire dal 27 settembre, quando verrà pubblicata la nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef). La premier Giorgia Meloni vorrebbe confermare gli stessi livelli di crescita previsti in aprile sia per quest’anno (uno per cento) che per il prossimo (1,5 per cento). Questo consentirebbe di di mantenere quasi inalterati deficit e debito. «Il deficit di quest’anno potrebbe salire dal 4,5 al cinque per cento a causa del maggiore impatto del Superbonus. Aumento che non viene considerato dannoso perché cade in un anno con le regole Ue del patto di Stabilità sospese. Quel che conta per Palazzo Chigi è tenere l’argine del deficit al 3,7 per cento il prossimo anno», si legge ancora su Repubblica. Ma non c’è alcuna certezza.
Per far passare un messaggio di stabilità del Paese – per rassicurare Bruxelles, gli elettori e soprattutto i mercati – Meloni vorrebbe dimostrare tutta l’affidabilità di Roma, per cui non conviene muovere lo spread, dare cifre fuori scala o extra deficit ingiustificati e trovarsi poi a fare correzioni di primavera con le urne alle porte. Ma se non c’è margine, la manovra non può di certo essere espansiva: che figura ci farebbe la leader di Fratelli d’Italia?
Allora, come scrive Repubblica, una delle possibilità simulate dai tecnici «è di prorogare solo per il primo semestre il taglio del cuneo contributivo che scade il 31 dicembre e favorisce 13,8 milioni di lavoratori con un beneficio massimo di cento euro al mese. Confermare il taglio per tutto l’anno costa 15,6 miliardi lordi e 11,2 miliardi al netto delle tasse. Per sei mesi basterebbero 5,6 miliardi netti. Dopo le elezioni europee si porrebbe il tema di come andare avanti, dove e se trovare le coperture per gli altri sei mesi. Oppure se procedere con la riforma dell’Irpef. A urne ormai chiuse».
Il taglio del cuneo è il cuore della manovra, il resto saranno operazioni comunque importanti, ma numericamente marginali, di contorno, pacchetti da uno o due miliardi di euro. Per il lavoro, ad esempio, si pensa alla detassazione dei premi di produttività, a una soglia dei fringe benefit più alta, a sconti fiscali alle aziende che assumono madri con tre figli, alla conferma del bonus per le assunzioni di giovani e donne. Mentre sulle pensioni, sul tavolo c’è la proroga di Quota 103, l’Ape sociale e pensioni minime per gli over 75 a seicento euro. Spesa che si finanzierebbe con un nuovo taglio dell’indicizzazione delle pensioni.
Insomma, con buona probabilità sarà una manovra sgonfiata, lontana dai trentacinque miliardi dell’anno del 2022, a causa di limitate coperture. E già ci sono quattro miliardi di maggior deficit già creato, più trecento milioni di tagli alla spesa dei ministeri, mentre i proventi della tassa sugli extraprofitti delle banche che ammontano a uno o due miliardi.