A Lancaster County, in Pennsylvania, abita un’artista che scrive colonne sonore per film, serie tv e compagnie teatrali sperimentali. Michele Mercure ci tiene a riempire il suo lavoro di sentimenti, trova che sia importante comunicare la propria storia e improvvisare, per specificare cosa le passi per la testa. Non ama esibirsi spesso. Si lascia ispirare dai posti, dai sogni e dalle persone. A noi interessano le sue produzioni personali per il loro carattere cinematografico e potrebbero essere definite Tone Poems (poemi sinfonici): flussi di coscienza sconclusionati e ricchi di emozioni. Sin da piccola inizia a suonare la chitarra, affascinata dalla musica. Crescendo si interessa sempre più all’atto di creare arte con i rumori e alla registrazione di suoni ambientali che si diverte a ripetere in loop. A 20 anni, poi, scopre la scena elettronica. Siamo nel 1980 a Harrisburg, la capitale del “Keystone State”, quando i sintetizzatori cominciano a diventare popolari e accessibili anche alle tasche di giovani musicisti in erba.
Così, anche Michele Mercure ha modo di testare questo nuovo strumento, che finirà per aprirle tante porte. Oggi è una donna adulta, una curiosa collezionista di sintetizzatori che da Harrisburg si è trasferita a Lancaster County, a un centinaio di chilometri da Philadelphia. Qui coniuga la vita rurale a quella urbana, in una cittadina tranquilla che accoglie comunità di pittori e gallerie d’arte. Hanno tutti l’abitudine di ritrovarsi il sabato mattina al farmers market. Lei lavora in solitario: di giorno o di notte, il suo tempo scorre senza seguire una routine precisa. Le capita di riordinare il suo studio, di spostare il materiale e con lui anche l’energia, da una stanza all’altra. Si tratta di semplici rituali che spesso aiutano gli artisti a organizzarsi mentalmente per affrontare nuovi progetti. A tenerle compagnia c’è il suo cane lupo. L’abbiamo rintracciata per farci raccontare la feconda esperienza creativa vissuta a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
A volte la musica ti appariva in sogno…
Successe alla fine degli anni Ottanta, inizio dei Novanta. Coltivavo parecchio i miei sogni all’epoca. Ancora oggi sogno, ma i miei ricordi non sono così vividi. Allora ne ricordavo porzioni importanti, tanto da riuscire ad annotare le melodie, il contesto geografico, i suoni, il beat che poi ho replicato. Cercavo di avvicinare la musica il più possibile ai sogni. Questi, però, sono un po’ come le nuvole: si formano e dissolvono. Al mio risveglio scrivevo ogni dettaglio di tutto ciò che ricordavo. A volte funzionava, a volte mi toccava riempire i vuoti con pezzi che mi inventavo sul momento. Tanti dei miei brani hanno preso forma così. La maggior parte del mio lavoro, oggi, non segue più questo processo creativo solitario, ma ammetto che continuo a sognare di musica, sintetizzatori e chitarre.
Raccontaci dei tuoi sogni di musica.
Nel periodo in succedeva, facevo una serie di sogni ricorrenti in cui mi trovavo in una stanza con un piccolo tavolo e due sedie. Qui discutevo di musica con persone sconosciute, che sedevano dall’altra parte del tavolo o addirittura con me stessa, sentivo nuove melodie. È un sogno in cui ogni volta il mio interlocutore cambiava ma il setting restava lo stesso. Al mio risveglio scrivevo le melodie e i suoni che riflettevano le emozioni provate nel sogno.
Un sogno che non dimenticherai mai?
Circa dieci anni fa sono stata scossa da un sogno che raccontavo ripetutamente ai miei amici. Stavo in piedi in cima a una collina : da un lato vedevo tornadi, uragani, devastazione, dall’altra scorgevo il sole, l’arcobaleno e belle nuvole, una giornata fantastica. Lì mi sono sentita come se avessi dovuto fare una scelta: un universo negativo e spaventoso o l’opportunità di incamminarmi verso una bella giornata. Come in una fiaba per bambini potevo scegliere tra il buono e il cattivo. Ricordo di essermi svegliata sollevata dalla mia scelta di dirigermi verso il bene.
Dal 1983 al 1990 hai autoprodotto e distribuito tante audiocassette.
All’epoca le audiocassette erano lo strumento più in voga e anche più efficace per chiunque volesse produrre e distribuire la propria musica. La condivisione di cassette con gli altri artisti era all’ordine del giorno, cercavo di farne girare almeno una all’anno. All’inizio avevo la mia tecnica per doppiarne il più possibile a casa, poi negli ultimi anni mi sono affidata a professionisti, le compravano in molti! Tutto è così complicato ultimamente, quando in realtà questo supporto è così semplice e immediato… Sono felice di constatare che a poco a poco stanno ritornando di moda, ne ho ancora a centinaia impilate nel mio studio.
Come ti senti quando metti i dischi?
Negli anni Ottanta ho fatto la dj in alcuni club. Allora si trattava di sposare più canzoni, affiancandone l’una con l’altra in un’unica playlist. Oggi fare il dj è un atto di performance che in passato non era necessariamente richiesto, è tutta un’arte. I dj hanno la propria musica e rispetto al momento di produzione musicale l’aspetto performativo mi affascina meno: preferisco lasciare questa attività ad altri.
Pensi che la tecnologia abbia avuto un’influenza importante sul tuo lavoro?
Ha tutt’ora un impatto enorme. Quando ho cominciato negli anni ‘80 lavoravo principalmente con cassette, mentre oggi la maggior parte dei miei sintetizzatori si trova nel mio computer, sono più di un centinaio e posso portarli con me dove voglio. Ci sono molte – forse troppe – opzioni oggi, il che può essere sia un bene sia un male per la nostra mente.
Chi ha forgiato la tua produzione musicale?
Quando ho cominciato a interessarmi all’elettronica, Kate Bush mi ha colpito per la sua strumentalità, il modo in cui confezionava le sue produzioni con i sintetizzatori. Pensare che un’altra donna stava realizzando la propria musica all’epoca ha avuto un grande impatto su di me. C’è anche Conrad Schnitzler, un musicista tedesco, il suo Con (1978) è stato uno dei primi album di musica elettronica che abbia mai sentito. Mi ha talmente colpita che mi sono messa in contatto con lui e abbiamo intrapreso una lunga corrispondenza durante la quale condividevamo tanta musica. Pur essendo due figure essenzialmente diverse l’una dall’altra, Kate Bush e Conrad Schnitzler hanno influito sulla mia produzione musicale.
Cosa hai ascoltato ultimamente?
Lucrecia Dalt, che fa una musica elettronica eclettica, difficile da definire. Poi c’è Holly Herndron, che si serve dell’intelligenza artificiale per sperimentare nuove composizioni, e poi ancora Eve Maret, un’artista elettronica sperimentale di Nashville. Adoro queste tre donne in questo momento.
Cosa ascolteremo quest’autunno?
Non vedo l’ora che esca l’ultimo album di Wayne Phoenix, ho sentito una traccia che mi ha dato voglia di sentire tutto il disco.
Mi sembra aver capito che ti piace lavorare per improvvisazione. Potremmo definire An Electronumentary come una metafora del tuo modo di produrre musica?
Da dove viene la musica elettronica? Ci sono infinite possibilità per rispondere. Ogni artista lavora in modo diverso dall’altro. Nel corso del corto mi chiedo esplicitamente come rispondere a questa domanda. Segue una seconda domanda : come funziona l’elettricità? Come rispondere? Girandolo ci siamo divertiti: prendersi troppo sul serio non fa parte della mia personalità. È vero, spesso lavoro per improvvisazione e adesso che ci penso quest’opera potrebbe essere una metafora del mio modo di lavorare. Non mi faccio troppe domande sulla provenienza della mia creatività, mi metto all’opera e ne esce della musica. Non do niente per scontato e cerco sempre di divertirmi.
Beside Herself è una compilation che raccoglie tanti anni di lavoro e in cui si possono distinguere diversi strati di musica e sentimenti…
La progressione delle emozioni è evidente. Si attacca con una musica allegra A little piece, il primo brano che abbia mai composto, per poi proseguire con un’escalation di sentimenti che si conclude con Antartica, un pezzo immaginato per uno spettacolo teatrale che parla di una triste spedizione in Antartide. Qui, l’emozione della non sopravvivenza e la disperazione della morte si succedono alla bellezza della vita.
A cosa stai lavorando in questo momento?
Musica per le spie, musica sulle spie della guerra fredda. È un progetto ispirato all’ultimo libro scritto dalla mia compagna Mary Haverstick, A Woman I know, che sarà pubblicato negli Stati Uniti e Inghilterra il 14 novembre. È un lavoro di ricerca lungo dieci anni ispirato a fatti realmente accaduti, che include l’intervista a una spia dalla doppia personalità e propone una nuova pista sull’assassinio di Kennedy. Il tema mi ha presa moltissimo, lo sapevate che ci sono vecchi video di training per spie online? È divertente. Sto preparando un video che uscirà in concomitanza con la presentazione del libro tratto dal mio ultimo tour europeo nel 2019.