La cerimonia dei Grammy in programma per il 31 gennaio a Los Angeles è stata spostata ad aprile, a Las Vegas, a causa dell’aumento dei contagi. Il più prestigioso riconoscimento in ambito musicale, nonché uno dei premi più importanti di tutta l’industria dello spettacolo, si è arreso alla diffusione della variante Omicron. Ma quasi non se n’è parlato, nemmeno sui social che di solito non lesinano commenti sugli argomenti di cultura popolare.
Difficile immaginare una reazione altrettanto algida da parte del pubblico se la Nfl avesse spostato il tanto atteso Super Bowl di febbraio o se l’Academy avesse rinviato la cerimonia di premiazione degli Oscar, giusto per fare un paio di esempi. Ma d’altronde i follower dei Grammy sono in netto calo, come testimoniano i dati della passata edizione: -53% rispetto al 2020, da 18,7 milioni di spettatori a meno di 9 negli Stati Uniti. Dieci anni fa erano 40 milioni.
È il sintomo di un calo più generale dell’industria musicale, che non riesce più ad attrarre seguito per i suoi nuovi prodotti.
Il mondo non ha smesso di ascoltare la musica, solo che i nuovi brani fanno più fatica a rimanere nella testa e nel cuore degli ascoltatori. «Il mercato della nuova musica si sta effettivamente riducendo, tutta la crescita del mercato viene da vecchie canzoni», ha scritto sull’Atlantic Ted Gioia, autore che scrive regolarmente di musica per il magazine americano e ha pubblicato 11 libri sulla musica – l’ultimo è “Music: A Subversive History”.
Qualche dato aiuta a inquadrare lo scenario: le vecchie canzoni rappresentano il 70% del mercato musicale statunitense; i 200 nuovi brani più popolari rappresentano regolarmente meno del 5% degli stream totali, un dato che solo tre anni fa era al 15%; l’attuale elenco dei brani più scaricati su iTunes è pieno di nomi di band del secolo scorso, come Creedence Clearwater Revival e i Police.
«Mai prima d’ora nella storia i nuovi brani hanno raggiunto lo status di hit generando così poco impatto culturale», scrive Ted Gioia.
Se è vero che nella musica il successo è sempre stato effimero, quasi per definizione, è anche vero che oggi il pubblico sembra apprezzare solamente i grandi pezzi del passato. E capita che le nuove canzoni che diventano successi passino inosservate per gran parte della popolazione.
Per l’industria musicale sarebbe un controsenso, almeno secondo il modello di business delle case discografiche, che è costruito sulla promozione di nuove canzoni.
Il problema principale è che non sembrerebbe una moda passeggera. Secondo Ted Gioia, non è nemmeno una condizione causata dalla pandemia: «Alcuni vorrebbero credere che questa tendenza sia solo un colpo di scena a breve termine e che quando le discoteche riapriranno e i DJ inizieranno a girare nuovi dischi alle feste, il mondo tornerà alla normalità, o almeno così ci è stato detto. Non sono così ottimista».
Ci sono infatti altri fattori di lungo periodo a insistere su questa tendenza. In primo luogo si potrebbero guardare le spese dei grandi investitori nell’industria musicale: l’area principale di investimento sono proprio le vecchie canzoni, con alcune grandi società – come Universal Music, Sony Music, Warner Music – disposte a fare ricche offerte per acquistare cataloghi editoriali di rock e pop star del passato, come Bob Dylan, Paul Simon, Bruce Springsteen, David Bowie e James Brown.
In secondo luogo si possono guardare le vendite al dettaglio. Il formato fisico più venduto nella musica è l’LP in vinile, un prodotto che ha più di 70 anni. «Non ho visto segnali che le etichette discografiche stiano investendo in un’alternativa migliore e più nuova, perché anche qui il vecchio è considerato superiore al nuovo», scrive Ted Gioia.
Ma non solo. Ultimamente alcune star del passato tornano in vita in forma virtuale, come ologrammi, diventando immortali quasi nel vero senso del termine, rendendo quindi ancora più difficile per i giovani artisti competere sul mercato.
Questi elementi, sommati, creano un quadro che lascia poco spazio all’ottimismo, come riporta l’Atlantic: «L’industria musicale ha perso la capacità di scoprire e coltivare i propri talenti».
I primi a farne le spese sono ovviamente gli artisti emergenti, che devono barcamenarsi in un mercato sempre più ostico per guadagnare visibilità (o guadagnare e basta).
Alcuni scelgono ad esempio di inserire i loro brani autoprodotti in una playlist di streaming, o autorizzano alcune aziende a usare le loro canzoni nella pubblicità o nei titoli di coda di un programma tv. Una soluzione che può generare un reddito da royalties, ma fanno poco per rendere un nome davvero riconoscibile.
Secondo Ted Gioia dell’Atlantic c’è una sostanziale perdita di fiducia verso la nuova musica da parte delle persone che stanno ai vertici dell’industria musicale. «Non possono ammetterlo pubblicamente: sarebbe come se i sacerdoti di Giove e Apollo nell’antica Roma ammettessero che i loro dei sono morti. Anche se sanno che è vero, non lo diranno mai. Anzi fingono di credere ancora nel futuro della loro attività e diranno di voler scoprire il prossimo talento rivoluzionario. Ma non è quello che pensano davvero. Le loro azioni parlano molto più forte delle loro parole vuote», si legge nell’articolo.
Alcune ragioni le avrebbero, i dirigenti: in un certo senso loro hanno buon gioco a seguire il mercato. Le stazioni radio, per fare un esempio, trasmettono solo brani che si adattano alle formule musicali dominanti e più in voga, ma queste non sono cambiate molto negli ultimi decenni.
Lo stesso vale per le piattaforme per l’ascolto della musica: gli algoritmi sono progettati per creare una certa ciclicità, assicurando che i nuovi brani promossi all’utente siano praticamente identici ai suoi brani preferiti. E tutto ciò che rompe gli schemi è fuori gioco. Insomma, un disco country deve suonare in un certo modo per essere riprodotto sulla maggior parte delle stazioni radio o delle playlist country – se ha toni e tempi diversi con buona probabilità finirà in un angolo.
«Il problema quindi non è la mancanza di nuova musica di qualità, è che l’industria musicale non è più progettata per scoprirla e alimentarla, la musica di qualità», si legge sull’Atlantic. Manca capacità e propensione al rischio, all’investimento non sicuro. Solo che non è una strategia lungimirante: «Negli affari, come nella vita – spiega Ted Gioia – se segui una strategia di rischio zero puoi ottenere un vantaggio nel breve periodo, ma è un fallimento annunciato sul lungo termine. E questo è quel che sta accadendo all’industria musicale».
Nonostante uno scenario così cupo, ci sono alcuni elementi che fanno ben sperare. Naturalmente ci sono gli ascoltatori che desiderano qualcosa di nuovo, scoprire suoni e brani diversi, innovativi, moderni. E se non lo trovano nel catalogo di una grande etichetta discografica, o in una playlist guidata da algoritmi, lo troveranno da qualche altra parte.
«Le rivoluzioni musicali – è la conclusione dell’articolo – avvengono dal basso verso l’alto, non dall’alto verso il basso. Gli amministratori delegati sono gli ultimi a saperlo. Questo è ciò che mi dà conforto. La nuova musica nasce sempre nel posto meno atteso e quando i mediatori del potere non prestano nemmeno attenzione. Accadrà di nuovo. Ce n’è bisogno. I decisori che controllano le nostre istituzioni musicali hanno perso il filo. Siamo fortunati che la musica sia troppo potente per essere uccisa».