Nel vasto universo del cinema d’animazione, Hayao Miyazaki è una stella che brilla di luce propria, un regista che per oltre cinquant’anni, assieme allo Studio Ghibli – co-fondato nel 1985 – ci ha permesso di sognare ad occhi aperti, dando vita a mondi in cui magia, natura e umanità vivono intrecciate e unite, con inimitabile naturalezza.
Nei film di Miyazaki la maestria del disegno – imparata all’età di ventidue anni, quando lavora come artista d’intervallo alla Toei Animation – va di pari passo a una scrittura curata con altrettanta meticolosità, fatta di riferimenti biografici, ispirazioni letterarie e riflessioni sulla natura dell’identità e sulla lotta di ogni individuo per trovare e accettare se stesso in un mondo in costante cambiamento, spirituale e naturale. Attraverso i viaggi dei suoi personaggi, a loro modo tutti estremamente complessi, Miyazaki esplora i concetti di crescita, appartenenza, e il significato di “casa”. Sono questi temi universali che hanno reso le sue opere comprensibili e risonanti per gli spettatori di tutte le età da tutto il mondo e in cui risiede l’eccezionalità della sua creatività.
Uno degli scopi più alti nella vita è diventare chi si è veramente e imparare ad accoglierlo, il che è possibile soprattutto attraverso l’esperienza della sofferenza e del dolore, una tradizione spirituale orientale ben nota, che vede nel coraggio, e nella rivoluzione interiore, gli unici strumenti utili e necessari per liberarsi.
Lo vediamo ne La città incantata (2001), ad esempio, dove la giovane Chihiro viene assorbita da un mondo misterioso, dominato dagli spiriti, in cui per sopravvivere è costretta a vendere il proprio nome alla Strega Yubaba, la quale esige la sua identità in cambio di un contratto di lavoro. E sarà proprio questa permanenza a farle comprendere l’importanza dell’amicizia, del coraggio e soprattutto dell’autosufficienza. Oppure, nel suggestivo Principessa Mononoke (1997), Ashitaka è in conflitto tra le sue radici come principe Emishi e il ruolo che il destino gli ha riservato. Egli è infatti un ponte tra due mondi: quello della tradizione e quello della modernità, e attraverso il suo viaggio per la ricerca di una cura per la maledizione che affligge il suo corpo, affronta anche l’accecante rabbia e il disordine che vede nel mondo.
E infatti, la trasformazione dei personaggi di Miyazaki non coinvolge esclusivamente la loro parte interiore, ma anche quella esteriore. Pensiamo per esempio a Porco Rosso (1992), in cui Miyazaki ci presenta come protagonista Marco Pagot, un ex pilota della Prima Guerra Mondiale che ora vive come cacciatore di taglie, ma con una particolarità: a seguito di un misterioso incantesimo ha l’aspetto di un maiale, che rappresenta anche la perdita di fede nell’umanità a seguito degli orrori della guerra, e, in qualche modo, del suo senso di colpa e di vergogna per il ruolo che ha avuto al suo interno. «Quelli bravi muoiono tutti», dice all’inizio del film, ma attraverso il legame con la giovane e talentuosa Fio, che progetta e ripara aerei, Marco inizia lentamente a riscoprire la bontà umana, non solo negli altri, ma anche in sé stesso. Solo per un attimo, quasi fosse un’allucinazione, Miyazaki ci mostra un volto umano, sotto il maiale.
E ancora, ne Il Castello Errante di Howl (2004), in cui la timida Sophie fa l’incontro del potente e affascinante mago Howl e per gelosia, viene trasformata dalla Strega delle Lande in una ricurva vecchietta. Questa maledizione, che le impedisce di parlare della sua condizione, la costringe a lasciare la sua casa e a cercare rifugio nel castello di Howl. Inizialmente rassegnata al suo destino, gli eventi le permettono di esplorare la sua vera forza interiore e una capacità di amare che non conosceva di avere. Un percorso non sempre lineare, che evidenzia la fluidità del concetto di sé e la complessità della crescita personale: a volte vediamo Sophie ritornare alla sua giovane forma, altre volte ad una via di mezzo, il tutto a seconda delle sue emozioni e delle sue realizzazioni interiori. «Sophie, i tuoi capelli si sono tinti della luce delle stelle!» si sentirà dire sul finale la protagonista, tornata finalmente giovane.
Perché in fondo, la nostra versione finale (se poi ne esiste realmente una!) non è altro che una combinazione di tutte le altre passate, e questo Miyazaki ce lo suggerisce chiaramente. L’esistenza, coi suoi interrogativi, è un tema che risuona potente anche nell’ultimo film del regista, Kimi-tachi wa Dō Ikiru ka (E voi come vivrete?) in Italia tradotto come Il Ragazzo e l’airone, uscito nelle sale giapponesi lo scorso 13 luglio e attesissimo in quelle italiane il primo gennaio 2024.
In lavorazione dal 2016, il film riprende il titolo di un romanzo del 1937 di Yoshino Genzaburō, E voi come vivrete?, una delle letture che hanno avuto più presa nel giovane Miyazaki, che a quanto pare è servito solo come canovaccio iniziale. La trama del film infatti è del tutto originale e racconta la storia di Mahito, un ragazzo che dopo la tragica perdita della madre e le complicate dinamiche familiari con il padre e la nuova matrigna, si trova in un crocevia tra passato e futuro, realtà e magia. Le sfide e le complessità della sua vita si intrecciano infatti con il mistero di un airone parlante, che gli rivela l’esistenza di un mondo diverso, dove nulla è reale, e intraprende la ricerca di sé stesso.
All’interno di quello che è senza dubbio il film più ricco, autobiografico (a detta del produttore Toshio Suzuki sarebbe un dono per il nipote), più complesso, popolato, che riassume in sé tutti i temi, i motivi visivi e le idee morali di Miyazaki, si compie il viaggio di Mahito, rappresentativo del difficoltoso processo di crescita di ogni individuo. Il percorso dall’infanzia all’adolescenza fino alla maturità è costellato di sfide, dubbi e scoperte. E come Mahito, tutti noi siamo chiamati a fare i conti con il nostro passato, a riconciliare le nostre relazioni e a sfidare le nostre paure.