Un paio di settimane fa, in un post su Facebook, una nota giornalista culturale e scrittrice (e tanto altro ancora), riferendosi alla compianta Michela Murgia (soltanto “Michela”), deplorava «l’inizio della sprezzatura nei suoi confronti». Sprezzatura? È vero che quel che intendeva dire si può ipotizzare per contrasto, con buona approssimazione, dalla proposizione seguente introdotta dalla congiunzione coordinativa avversativa: «ma anche del dilagante amore che ha lasciato» (don’t worry, non si ingrosserà qui il dissonante coro dei laudatori e dei detrattori della scrittrice prematuramente scomparsa). Però è proprio necessario ricorrere a una parola di cui non molti conoscono il senso preciso, appioppandogliene uno – fuorviante – per via di vaghe assonanze?
Sprezzatura è una parola di origini rinascimentali, squisitamente italiana e pressoché intraducibile (il corrispondente più vicino, in francese, può essere nonchalance, mentre l’inglese in genere preferisce non tradurla). Ma anche nella nostra lingua è poco usata, e propriamente usata in ambito dotto. L’etimologia la riconduce al verbo “sprezzare”, dal latino pretiare, ossia dare un prezzo, pretium, e quindi stimare, apprezzare, pregiare, con la s iniziale che conferisce un senso negativo. Da questo punto di vista, se la prezzatura consiste nell’applicare un prezzo e dunque valutare, la sprezzatura sembrerebbe funzionare al contrario, negando il prezzo e dunque svalutando: spregiando – o, con una connotazione più forte, disprezzando. Infatti nel Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia è registrato come primo significato quello di «atteggiamento sprezzante, tono di disprezzo verso persone o fatti ritenuti indegni di considerazione e di rispetto».
Senonché è questa un’accezione puramente teorica, etimologicamente sostenibile ma di fatto impraticata: perché, fin dal suo lontano atto di nascita, nella parola sprezzatura è insita una torsione semantica che l’ha consegnata a un ben determinato utilizzo – senza per questo metterla al riparo da occasionali incidenti di percorso. L’umanista Baldassarre Castiglione, che nel suo Cortegiano (prima edizione 1528) sembra volersene attribuire l’invenzione, ricercando donde scaturisca quella “grazia” che conviene al perfetto uomo di palazzo individua «una regola universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra: e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte, e dimostri, ciò che si fa e dice, venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi» (libro I, cap. XXVI).
Quindi il “disprezzo” non è rivolto verso altre persone, o fatti o cose di altre persone, ma verso il soggetto stesso che pone in atto la sprezzatura: è qualche cosa che si manifesta restando all’interno del soggetto sprezzante, non un disprezzo propriamente detto ma un superiore distacco, un “non dare prezzo”, “non dare valore”, “non dare peso” a ciò che si è o si fa o si dice. Un atteggiamento che mira a dare l’impressione di una spontanea indifferenza, un artificio che dissimula l’artificio sotto l’apparenza di una studiata naturalezza.
Sprezzatura, in questo senso, si può ravvisare per esempio nel codice comportamentale del principe di Salina nel Gattopardo, come pure nella scrittura di Alberto Arbasino, o in un certo modo di vestire con eleganza disinvoltamente infrangendo i canoni classici. È «un ritmo morale», «la musica di una grazia interiore», secondo la poetessa Cristina Campo, che in una lettera del 1963 confidava di volervi dedicare un saggio, qualificandolo come un «tratto fra tutti il più nobile e che è dato così di rado, e a così pochi popoli», soprattutto agli italiani che «ne ebbero il fiore proprio nei Medici».
Al significato “tecnico” stabilito da Castiglione – che all’inizio del Seicento ha conosciuto altresì una declinazione nella teoria musicale del “recitar cantando”, incunabolo dell’opera lirica – si è attenuta univocamente la tradizione letteraria, da Torquato Tasso a Giacomo Leopardi, da Gabriele d’Annunzio e Benedetto Croce ai giorni nostri. Fino all’avvento dei social, che sotto le sdrucciolevoli sembianze della democratizzazione hanno sdoganato l’anarchia linguistica. Più democratico, più accessibile a tutti (oltreché semanticamente corretto) sarebbe stato, nel caso da cui siamo partiti, parlare (semmai) di denigrazione o tout-court di disprezzo. Estrarre dal cilindro la nozione malintesa di sprezzatura è il contrario della sprezzatura: sa tanto di affettazione.