«Io non me la bevo, un’ora». È il settembre del 2023, l’inizio di settembre: non settimana della moda, non salone del mobile, nessuna delle sagre strapaesane con intenti cosmopoliti durante le quali Milano diventa invivibile. Eppure ci ho messo un’ora a procurarmi questo taxi.
Il tassista che arriva a prendermi sotto un ambulatorio nel centro di Milano dopo un’ora di bigliettini con «zero minuti – no taxi» che mi passava l’usciere, e telefonate a vuoto mie all’altro servizio di radiotaxi, il tassista mi accusa di millantare l’ora di ricerche: «Vi conosco, voi: se non trovate il taxi in tre minuti vi sembra inaccettabile».
A metà percorso, datosi una calmata, il tassista conviene che non ci sono taxi per tutti, dicendoti la cosa che ti dicono da più di un anno tutti quelli che lavorano coi turisti: dopo il Covid le città sono invase dai visitatori, non c’è mai stato tanto lavoro, non ci sono macchine, stanze d’albergo, amenità per tutti.
È il dicembre del 2022, devo andare a Roma, scopro che hanno ristrutturato un piccolo hotel in cui ero andata moltissimi anni fa, di fronte a un albergo di quasi lusso che non mi potrei più permettere. Prenoto una stanza. Centoventi euro. Quando ci dormo mi sembra un miracolo: sono deliziosi e abbordabili. Lo racconto a un amico che si raccomanda di non dirlo in giro: poi diventa di moda e rincara.
È il maggio del 2023, devo fermarmi a Roma per colpa di Trenitalia che mi ha cancellato il treno di ritorno dalla Puglia (e quattro mesi dopo ancora non mi avrà rimborsata). Chiamo l’albergo delizioso. Sono ancora gentili, e gentilmente mi trovano una stanza. A 320 euro.
Dopo aver prenotato, ho uno scrupolo: ma non è che sto pagando l’albergo carino ma anonimo una cifra con la quale potrei dormire nell’albergo di quasi lusso? Controllo sul sito (un vantaggio della modernità: puoi essere pezzente senza telefonare e dover esplicitare la tua pezzenteria a un impiegato dell’albergo). L’albergo di quasi lusso non ha posto la sera che mi serve, per quella dopo una camera costa novecento euro.
Vado nella mail a controllare le prenotazioni vecchie degli anni in cui il quasi lusso era quasi alla mia portata (un vantaggio della modernità: non è necessario avere un diario o conservare le ricevute della carta di credito). Dicembre 2015. Centodue euro. Sette anni e mezzo, nove volte tanto. È normale? Voi guadagnate nove volte quel che guadagnavate nel 2015?
In quei giorni scrivo un articolo sulla scomparsa della classe media, dopo aver (fallimentarmente) cercato un albergo a un prezzo non assassino a Verona. Credo di avere, come spesso mi capita, scritto di qualcosa che interessa solo a me. Il giorno dopo mi telefona chiunque, conservo tra i ricordi più cari la frase «in un Marriott ad Amsterdam mi hanno chiesto mille euro».
(Sono andata ad Amsterdam un anno fa, il tassista che mi ha chiesto ventisette euro per quattro minuti di tragitto tra un museo e l’albergo era molto scocciato dalla mia carta di credito, voleva assolutamente i contanti. Fosse capitato a Roma, sai quanti «solo in Italia» sarebbero volati).
È ieri. L’amico mi telefona dicendomi che deve fermarsi a Roma e ha chiamato l’albergo che gli avevo raccomandato a dicembre: vogliono quattrocento euro e spicci. Benvenuti nell’epoca del turismo di massa, dove in nove mesi i prezzi quadruplicano.
Il dettaglio sconcertante è che l’epoca in cui è tutto carissimo, e la qualità di tutto è precipitata, per cui ci si aspetta che noialtri si paghi come emiri per avere servizi da «pensione Miramare terza categoria senza bagno» (immagino coglierete la citazione da “Sapore di mare 2”), quest’epoca qui è anche l’epoca in cui si grattano gli spicci per rimpolpare i guadagni.
Una editorialista del Wall Street Journal ha aperto il listino prezzi d’un Hyatt di Boston scoprendo che, se vuoi lasciare la stanza all’una invece che a mezzogiorno, non chiedi una cortesia al portiere: c’è un prezzario, cinquanta dollari per l’una, cento per le due, eccetera. Ci è rimasta come me quando mesi fa ho scoperto che a Milano, al Principe di Savoia, ti aggiungono il cinque per cento al conto per «voluntary staff contribution».
L’altro giorno il New York Times raccontava dei nuovi alberghi romani con stanze da venticinquemila o trentottomila euro a notte, e io mi chiedevo: ma la tassa di soggiorno te la addebitano comunque? Il check-out all’una puoi farlo senza multe? Gli spicci te li fanno risparmiare, o anche a uno stipendio medio annuale a notte comunque tentano di sgraffignare nichelini?
È l’agosto del 2023. Trenitalia ha tre categorie di prenotazione, che chi non sa viaggiare scambia per le classi di viaggio. Le classi del Frecciarossa sono quelle: Smart (che è un modo secondo loro meno umiliante di dire: terza classe); Business (che è il modo di far viaggiare in seconda classe gente che vuole percepirsi in prima); Executive (prima). Ma in qualunque classe ci sono varie categorie di prenotazione.
Se, a parità di classe, prenoti in modalità “supereconomy” paghi meno, ma poi se hai un contrattempo il biglietto lo butti. All’opposto estremo dell’elasticità c’è la categoria “base”, che secondo il sito di Trenitalia permette «cambi illimitati e gratuiti».
È quindi con sconcerto che, a fine agosto, non riesco a cambiare un biglietto “base” da Milano a Bologna. Non l’ho fatto io, e mi scoccia chiedere a chi paga la mia trasferta di cambiarlo loro perché io sono così impedita che dalla app non mi riesce. Nella sala d’attesa Frecciarossa, l’impiegata mi spiega che non devo pigiare su “cambia giorno e ora”, ma su “cambia biglietto”: se nel frattempo il costo del tragitto tra Milano e Bologna è cambiato, mi chiederanno la differenza. E i cambi illimitati e gratuiti allora che significano?
Inutile discutere: l’impiegata di Trenitalia vuole sette euro per farmi partire cinque ore prima del treno prenotato, e io glieli do percependomi «questa donna pagata io l’ho». Almeno nella sala d’attesa ci sono impiegati che ti danno fettine di mela e dadini di tramezzino di Cracco, là dove fino a pochi mesi fa c’erano solo lattine di Coca e di tè freddo: almeno questa modalità da pulciari di farti pagare il cambio gratuito la reinvestono.
Salgo tutta allegra sul Frecciarossa anticipato, e l’aria condizionata è rotta. Rotta anche nell’altra carrozza in cui il controllore mi manda promettendo che lì invece funzioni. Ci sono mille gradi, per fortuna è solo un’ora di viaggio. D’altra parte i sette euro che mi hanno arrubbato bastano a malapena per i dadini di tramezzino, mica per riparare l’aria condizionata.
Arrivo bestemmiando, faccio la solita interminabile fila ai taxi perché, appunto, a Bologna come ovunque i taxi non bastano, i turisti invece eccedono (a Bologna c’è l’aggravante che i tassisti si scocciano ad arrivare al posteggio dell’alta velocità: hai più chance di trovare un taxi se arrivi con un regionale, che è la realizzazione in Terra di «gli ultimi saranno i primi»).
Quando finalmente salgo nel primo ambiente climatizzato da ore, il tassista guarda con disprezzo la fila, e sintetizza lo stato delle cose: «Turismo straccione». Penso a questi disgraziati che s’illudono che gli si aprirà la mente andando in qualche città con le stesse catene di ristoranti che ci sono nella loro a dare i loro risparmi ad albergatori che li disprezzano, tassisti che li disprezzano, controllori di treno che li disprezzano. Torneranno a casa, dopo essere stati in qualche inutile museo, ignoranti come prima ma più poveri.
La sera guardo sulla app di Trenitalia come sia finita col mio treno con aria condizionata rotta. È arrivato alla destinazione finale, Reggio Calabria, con un’ora e mezza di ritardo.
Per fortuna non siamo portati per la rivoluzione, altrimenti uno che già deve andare a Reggio Calabria, e ci mette pure dieci ore senz’aria condizionata, come minimo imbraccerebbe il forcone contro la classe dirigente.
Per sfortuna non siamo portati per la logica, sennò altro che volersi rifare delle clausure pandemiche andando ovunque: con l’attuale qualità stracciona di massa dell’andare in giro, non usciremmo più di casa.