È appena uscito nelle sale cinematografiche “Il sapore della felicità” (titolo originale “Umami”), il film del regista francese Sony Sow in cui Gerard Depardieu interpreta un noto chef stellato che in un momento di crisi, non solo fisica, si ritrova spinto alla ricerca di un sapore perduto. Una favola il cui intreccio narrativo poggia su un gusto legato a un ricordo, sull’onda di madeleine proustiana e ratatouille disneyana, ma in questo caso il tesoro culinario da rinvenire non è una perla della cucina francese, bensì di quella giapponese. All’inizio della sua promettente carriera infatti Gabriel Carvin, il protagonista, durante una competizione professionale era stato sconfitto da una ciotola di noodles cucinata da uno chef giapponese: da qui parte, parecchi anni dopo, una personale recherche del gusto umami che naturalmente lo porterà a molto altro.
La cucina nipponica e il suo legame con il mondo occidentale tornano dunque sotto i riflettori e questo ci ha offerto l’occasione di parlarne con uno degli chef giapponesi più conosciuti in Italia, Hirohiko Shoda.
Nato a Nara, nel Giappone centro-meridionale, Hirohiko ha studiato la cucina europea e internazionale fin da adolescente, specializzandosi presso lo Tsuji Culinary Institute. Ha lavorato nell’alta ristorazione di cucina italiana nel suo Paese come capo chef di numerosi locali, per poi trasferirsi nel 2006 in Italia dove per circa otto anni ha collaborato con lo chef Massimiliano Alajmo de Le Calandre di Padova, ristorante tre stelle Michelin presente anche nella classifica dei World’s 50 Best Restaurants.
È poi diventato docente accademico, ha ideato il progetto di formazione Master Japan ed è diventato autore di libri (il suo “Washoku, l’arte della cucina giapponese” è un best seller) e di format tv, oltre che personaggio televisivo e radiofonico con un grandissimo seguito anche sui canali social, grazie non solo alla sua bravura ma anche alla sua capacità di comunicazione brillante e ironica.
Nel marzo 2019 ha ricevuto il titolo ufficiale di Ambasciatore della Cucina Giapponese in Italia da parte del Ministero dell’Agricoltura, delle Foreste e della Pesca del Giappone.
La filosofia di cucina di chef Hirohiko è semplice: l’amore per la natura e la purezza dei suoi frutti, il contatto diretto con ingredienti freschi e di stagione, le mani dello chef come strumento principale per mettere in collegamento questa parte della natura e colui che mangerà il piatto finale. Ogni ingrediente viene esaltato nella sua essenza più pura, elaborato in molteplici varianti, ma senza mai violentarne la consistenza e cercando di valorizzarne il gusto anche solo con l’efficacia di un taglio: «Il cibo va rispettato come fosse un’opera d’arte».
Parlando di materie prime, soprattutto fresche e stagionali, viene spontaneo chiedersi se esistono sapori giapponesi impossibili da replicare in un luogo distante da quello in cui sono nati. «Come per la cucina italiana, al di là degli ingredienti o dei prodotti più locali o artigianali che si trovano principalmente nella terra d’origine, in generale ormai è possibile reperire tutto con facilità» risponde lo chef. «Credo che la difficoltà principale non sia da ricercare nel sapore “oggettivo”, ma in quello più spirituale, personale, filosofico. Spesso infatti nella cucina giapponese eseguita fuori dal Giappone, manca il messaggio, la conoscenza di ciò che un piatto o una ricetta vuole trasmettere, che è un aspetto fondamentale del Washoku, l’arte della cucina giapponese».
Oltre alla particolarità delle materie prime, un altro elemento che rende immediatamente riconoscibili i piatti proveniente dal Paese del sol levante è sicuramente quello legato alla cura e bellezza delle composizioni, ma bisogna fare molta attenzione a non cadere nell’errore di pensare che questo sia l’aspetto più rilevante.
Secondo chef Hirohiko infatti estetica e design di per sé non influenzano la cultura gastronomica del suo Paese: «Nel senso che non è il fattore esteriore o oggettivo a prevalere. La cucina giapponese, come appunto dicevo prima, possiede un messaggio, un significato, un’armonia di tutti gli elementi, dai singoli ingredienti di ottima qualità, al tipo di taglio e di cottura, fino alla disposizione degli elementi nel piatto e al tipo di materiale dove impiattare (ceramica, vetro, legno) in base alla stagione o alla ricorrenza. L’intento non è quello di mostrare la bellezza esteriore, ma quella interiore».
Dunque ciò che conta è all’interno del piatto, ma non nel senso fisico, bensì metaforico. I piatti dello chef infatti sono un viaggio, una suggestione, sono indubbiamente influenzati dalla cultura orientale, supportati dagli studi internazionali e realizzati con ingredienti di stagione, ma sono anche il risultato di esperienza personale e creatività, fusione di tanti ricordi, ispirazioni, percorsi, conoscenze, tanto studio e tanto duro lavoro. Dice lo chef: «Io amo la cucina italiana come quella giapponese, sembrano distanti e diverse, ma in fondo sono molto simili nella loro ritualità familiare, nel loro essere gesto di amore, di conforto, di condivisione, di piacere”.
A questo proposito è interessante conoscere il suo punto di vista sull’influenza reciproca che queste due culture gastronomiche esercitano. «Io preferisco parlare di un’ottima amicizia, non di influenza. Non si deve essere influenzati da qualcosa o da qualcuno, ma piuttosto esserne affascinati, incuriositi o ispirati, e cogliere tutte le occasioni per ampliare le proprie conoscenze e imparare a conoscere il mondo, andando oltre la propria comfort zone. L’avvento delle cucine internazionali in Italia non deve essere percepito come una minaccia, nessuno toglierà agli italiani il piacere della propria tavola, i gusti di famiglia, di casa, si può tranquillamente spaziare nei gusti e assaggiare altro senza dover necessariamente entrare in competizione. Questo provo a trasmettere nei miei corsi o nei miei libri, la convivenza tra i popoli deve unire, non allontanare».
Lo chef conclude poi con una riflessione legata all’apparente centralità del cibo nel racconto cinematografico ora nelle sale: «Nel film non è il cibo ad avere il valore determinante, ma quello che suscita: emozione, passione, benessere, piacere, rigenerazione. Umami appunto non va considerato soltanto a livello di gusto, ma, come ben comprenderà lo chef protagonista del film, è piuttosto una sensazione profonda, che ti completa e ti soddisfa il palato e l’anima. Cercare l’umami della vita è appunto cercare quel tocco in più per stare bene, non serve andare lontano, a volte “il sapore della felicità” è lì vicino a te, basta non dimenticare di averne cura, è questo il messaggio del film».