Il vinile di “DallAmeriCaruso” l’ho buttato in un trasloco. Ci penso ininterrottamente da ventiquattr’ore, grazie a quella regola che ho imparato subito dopo quel trasloco. Dei due gesti di cui inderogabilmente ti penti, uno è: ogni cosa che butti. (L’altro è: ogni volta che sei gentile).
Il vinile di “DallAmeriCaruso” non lo ascoltavo da molti decenni prima di buttarlo (mica sono un maschio già brufoloso che, in nome della compressione del suono e altre seghe mentali, continua ad ascoltare i vinili sebbene la tecnologia sia divenuta più comoda).
Tuttavia, essendo esso uscito quand’ero carta assorbente, ne so a memoria ogni parlato, ogni applauso, ogni meraviglia. Era il disco dal vivo che arrivava dopo «i quattro dischi in cui Dalla è Michelangelo» (una definizione che m’imprestò una volta Cesare Cremonini, e non gliel’ho mai più restituita). Era una meraviglia.
Meno male che avevo un aereo da prendere, che mi sono svegliata all’alba, che in sala d’attesa c’era il Resto del carlino, che sono arrivata fino alla pagina con l’articolo di Pierfrancesco Pacoda, altrimenti avrei continuato a non sapere, magari fino all’ultimo minuto, forse addirittura fino a troppo tardi, che nel 2023 mi tocca andare una sesta volta al cinema.
Dove a fine novembre ci sarà per tre giorni, ho scoperto in un’alba improvvisamente luminosissima (ah, anche poeta), “DallAmeriCaruso – Il concerto perduto” – titolo che ha a che fare più con la cronaca che col lirismo.
Scopro infatti dall’articolo di Pacoda la storia così magnificamente cinematografica da non poter che essere vera. Nel 1986 Lucio Dalla fa questo benedetto concerto a New York e, oltre all’audio divenuto quel vinile, ci sono anche delle riprese video, le fa Rai America.
Se c’è una cosa che contribuisce a farci struggere di nostalgia rispetto al Novecento, è la scarsità di materiali video. Se non eri una Ferragni – la cui madre filmava qualunque cosa: unica ad aver visto il futuro – di te ci sono poche immagini persino se eri il Michelangelo delle canzonette.
Di esecuzioni in concerti di quegli anni di, non so, “Balla balla ballerino”, su YouTube ce ne saranno due. Dev’essere per questo che passiamo il tempo col telefono in mano come degli imbecilli: metti che ho davanti il nuovo Dalla e tra quarant’anni non ce n’è traccia.
Erano anni che avevano capito talmente poco che il futuro del mercato era la documentazione audiovisiva che i filmati di New York vengono inghiottiti dalla distrazione, dal disinteresse, da qualcuno che trasloca e non conosce quella legge ineluttabile, da qualche svuotacantine che per cinquantamila lire si porta via preziosità.
Quando ho iniziato a comprare prime edizioni di Arbasino in librerie dell’usato, alcune avevano la dedica. Alberto Arbasino ti manda “Fratelli d’Italia” con dedica, e tu lo vendi per due euro o giù di lì a una libreria dell’usato. Ero indignata. All’ennesima indignazione, amici caritatevoli mi svelarono: i figli.
Tu non lo sai perché non ne hai, mi spiegavano, ma a loro dei libri non importa niente. Tu muori, e loro chiamano un libraio e gli dicono: si porti via tutto. Cosa vuoi che gliene freghi se là in mezzo c’è una dedica a mammà di nientepopodimenoché Arbasino (che comunque non sanno chi sia, e se lo sapessero penserebbero che scrive inutilmente complicato).
E quindi: i funzionari Rai distratti, le bobine che chissà in che anfratto finiscono, i figli di qualcuno che fanno portare via le polverose cianfrusaglie di papà, e poi – certo ha ragione il signore se dice che siamo in un film, cantava quell’altro – qualcuno che trova i filmati in un mercatino dell’usato, li riconosce, contatta gli eredi.
E infine, come sa chiunque sia passato per la fine del Novecento, tutte le strade, e quindi anche questa, portano a Walter Veltroni. Il film l’ha fatto lui, aggiungendo a Dalla che canta, come non bastasse a sé stesso, interviste che saranno alcune interessanti e altre utili per andare a prendersi da bere.
Sarà il “The Eras Tour” di noialtre vegliarde, che però abbiamo il vantaggio di essere andate al cinema prima di quest’anno. “The Eras Tour” è il film del concerto di Taylor Swift, uscito nei cinema americani questa settimana (le proiezioni d’incasso dicono che già nel primo weekend supererà i cento milioni di dollari).
Nelle scorse settimane c’erano degli esilaranti video, su TikTok, in cui ragazzine fan della Swift si chiedevano come ci si comportasse al cinema: va bene se mi agito come se fossi a un concerto, o ci sono delle regole diverse? Il cinema come luogo alieno: al museo magari ci vai a farti degli autoscatti, ma col cinema perché mai dovresti avere consuetudine?
Una delle ragazze chiamava uno dei cinema per sapere se fosse consentito il sing along: quando ci sono i miei pezzi preferiti posso squarciagolare, o vengo accusata di disturbo della quiete cinematografica?
La cosa che mi è sembrata più incredibile è che, nell’epoca in cui è difficile farsi rispondere persino dal radiotaxi, in cui è tutto voci automatizzate, pulsantiere, call center che rispondono dall’Albania e non capiscono cosa tu stia chiedendo, la ragazzina è riuscita a farsi rispondere da una multisala americana. La cui impiegata, incredibilmente, non l’ha esortata a richiamare tra vent’anni: io adesso non so cosa dirti, non so risponderti, e non ho voglia di capirti.