Tre fotografi per quattro temi che compongono uno storyboard da sfogliare per scoprire un’Africa inedita, narrata da artisti della Nigeria, del Kenya e del Sud Africa radunati sotto il titolo More Than Us. Un buon proposito per l’anno che verrà: superarsi, ma è anche una sfida. Per Lavazza, per l’Africa, per il pianeta. Andiamo con ordine. More Than Us ha a che fare prima di tutto con la sostenibilità e i punti fissati nell’Agenda delle Nazioni unite per il 2030, in particolare il diciassettesimo, quello che stabilisce il modo con cui realizzare i sedici precedenti: la collaborazione. Questo aspetto combacia con il lavoro della Fondazione e di Lavazza Group, una realtà famigliare e plurale, attenta anche sostenibilità, tecnologia, innovazione, responsabilità e inclusione.
Il gruppo ha scelto l’Africa, terra emblematica perché conserva il luogo che ha dato i natali al chicco di caffè “Kafa”, in Etiopia, ma anche perché è un territorio della produzione attuale di Lavazza e di una serie di progetti sostenibili della Fondazione, che oggi supporta e finanzia trentatré progetti in venti paesi su tre continenti, a beneficio di quasi centonovantamila coltivatori di caffè. E poi perché, come si vede nelle fiere d’arte di tutto il mondo, in questo momento l’Africa è un luogo di grande creatività e trasformazione.
Tre artisti narrano tutto questo raccontandosi attraverso i propri lavori e tre ambassador completano un discorso inclusivo, antirazzista e solidale. Come spiega Francesca Lavazza, board member del gruppo, «l’Africa in questo momento è alla ricerca di un tratto identitario tra l’apertura al mondo occidentale e le proprie tradizioni. Gli artisti che hanno lavorato al progetto del calendario hanno percorsi e approcci diversi e la loro ricerca personale rappresenta il futuro che stanno costruendo. Attraverso la fotografia ognuno di loro esprime il proprio modo di essere attivista».
Daniel Obasi crea universi onirici in cui raccontare storie africane, sia tradizionali sia attuali, ma soprattutto le sue personali visioni del mondo. Tra i tre scatti pubblicati nel calendario ce n’è uno in cui un grande cavallo giocattolo dorato messo sulla spiaggia sembra correre lungo la battigia, mentre un gruppo di bambini è impegnato in varie attività: chi suona la tromba, chi gioca con delle bandiere… Si tratta di una foto emblematica che – come ha spiegato l’autore – racconta la forza e il ruolo che i giovani possono avere nella società, grazie all’educazione.
In effetti l’educazione è un filo rosso che unisce tutti e tre i lavori. Quello di Aart Verrips ne parla anche in chiave femminile: l’emancipazione delle donne viene raccontata in un suo scatto dove una modella indossa un abito a forma di cravatta, come a sfidare le norme imposte dalla società ed è accolta in una mano: i cambiamenti sono possibili se si fanno insieme, nella collettività. E poi c’è Thandiwe Muriu che mimetizza il corpo delle donne dentro sfondi in tessuti africani per farne emergere soltanto il volto, i capelli e le mani.
Il risultato è unico, dirompente, contemporaneo. Rappresenta il cambiamento ed è aperto al mondo, ma senza rinnegare le proprie origini, racchiuse in quello sfondo di texture colorate. I suoi scatti sembrano illustrazioni bidimensionali più che fotografie e sembrano narrare una storia antica. In effetti sono sempre accompagnati da proverbi africani, materiale su cui la fotografa lavora da sempre. «Sono essenziali per parlare di Africa, anzi di Kenya, il mio Paese, esattamente come i tessuti: raccontano la nostra storia e rappresentano cosa un popolo vuole dire di sé, per esempio attraverso i colori. Nei miei lavori non hanno una funzione simbolica, non sono descrittivi e li utilizzo proprio come elementi della tradizione».
Per arrivare all’immagine finale, poi «scelgo i tessuti, li trasformo in abiti che faccio poi cucire in una sartoria e li uso come sfondo nel mio studio. Ogni stampa ha una sua personalità e rappresenta il mood che voglio fotografare. Creo anche gli accessori, realizzati esclusivamente in materiale povero che si trova nelle case, come matite e lucido da scarpe per esempio. Penso all’impatto ambientale, perché è tutto riciclato, ma anche a descrivere la vita delle donne e il loro fondamentale ruolo quotidiano. Poi ci sono i capelli: scelgo acconciatori tradizionali al cui lavoro aggiungo poi un tocco contemporaneo. Fa da tramite con la mia generazione che magari non conosce quelle tradizioni e che io invece voglio trasmettere: voglio educare alla nostra storia. Quindi, porto tutto in studio. La modella indossa abiti e accessori, si mette in posa sullo sfondo, aggiusto le luci e scatto. E la foto è pronta», racconta Muriu.
Attraverso questo lavoro di poesia visiva artigianale, l’artista fa anche politica. «Se non avessi avuto qualcuno che si dedicasse a me con cura e pazienza non avrei mai scoperto la fotografia e non avrei mai potuto esprimere la mia personalità. E questo vale per tutto: l’educazione si basa sul passaggio di informazione e conoscenza ed è la via per combattere le disuguaglianze».
Cosa significa essere una fotografa donna? «In Kenya non ci sono state fotografe donne e per questo motivo le donne sono sempre state fotografate da uomini. Uno sguardo che ci ha rappresentato in modo sicuramente molto diverso da come siamo e credo di avere la chance di modificare. E poi credo che per me significhi anche mostrare una possibile nuova strada alle ragazze di oggi. Le mie modelle? Sono tutte donne che hanno da dire qualcosa in termini di rispetto».
E se poi – come è successo con il calendario More Than Us – a posare è Waris Dirie, modella, scrittrice e attivista somala per i diritti delle donne, il risultato è sensazionale. Immersa in un tessuto a stampe quasi optical, Dirie è ambassador per il progetto Lavazza. La sua è una storia di ribellione all’infibulazione e a un matrimonio combinato, che l’ha portata a fuggire dal suo Paese e approdare, dopo mille vicende, a Vienna, dove ha fondato una Onlus. Bella, bellissima anzi, porta avanti una lotta per la parità e l’uguaglianza. Anzi, come ha giustamente detto lei, è motore del cambiamento.
Al suo fianco c’è anche Zulaikha Patel, splendida, anche lei, in un vestito che le lascia scoperte le spalle e una testa di capelli afro meravigliosa. Proprio quei capelli che hanno acceso i motori della rivolta contro le restrizioni per le ragazze nere (e a lei stessa) imposte alla high school di Città del Capo: era obbligatorio lisciarli. Dalla sua opposizione nasce una società no profit per combattere ogni forma di razzismo. «L’Apartheid non c’è più, ma è solo un fatto formale: il razzismo è sistemico in Sud Africa, è integrato nella società. Bisogna continuare a lottare», spiega.
Il terzo ambassador di questo calendario 2024 è il premio Nobel per la pace Denis Mukwege, fondatore del Panzi Hospital and Foundation di Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo, per la salute delle donne. Con Fondazione Lavazza è nata una partnership per la formazione professionale nell’ambito della coltivazione e tostatura del caffè, rivolta alle vittime di violenza sessuale nella Repubblica Democratica del Congo. «Le donne ambassador di questo progetto sono delle guerriere», spiega Francesca Lavazza, «mentre Mukwege, il medico, sta creando reali opportunità di rinascita per le donne del Congo. Sono figure d’ispirazione, insieme all’arte che veicola progetti importanti e sensibilizza le persone. In una visione positiva anche del mecenatismo industriale, di cui il calendario è un esempio».