Lettera a SansonettiSu Israele non è questione di libertà d’opinione, ma di giornali che non dicono la verità

Iuri Maria Prado ha scritto al direttore dell’Unità per spiegare perché non se la sente più di scrivere per il suo quotidiano

AP/Lapresse

Caro Piero Sansonetti,
L’altro giorno ti ho inviato una lettera. Siccome hai ritenuto di non pubblicarla, te la invio nuovamente da qui.

Ho letto ciò che hai scritto a proposito della mia collaborazione con l’Unità e a proposito dei presunti motivi che mi avrebbero indotto a comunicare prima a te, e poi pubblicamente, che non riuscivo a proseguirla.

Ho sentito di non poter più scrivere per l’Unità – che ringrazio molto, moltissimo, come ringrazio te, moltissimo, per avermi fatto scrivere ciò che volevo – per motivi ben diversi rispetto a quelli che hai riferito: e tu hai riferito – in un articolino intitolato “Prado, Capanna, e la libertà d’opinione” – che io avrei provato disappunto per un pezzo “critico” con Israele, e che avrei la pretesa di “scegliere” i collaboratori.

Ora, con Israele sono stato duramente critico anche io, come sai, proprio su l’Unità: ma se pure non fosse stato così non mi sarei permesso di pronunciare nemmeno una sillaba sulle critiche che altri avesse mosso a Israele (e diciamo che qualche volta è capitato di leggere qualche critica a Israele, su l’Unità). Quanto poi alla mia ambizione di mettere becco nella scelta delle collaborazioni, diciamo invece questo: che sono scemo, d’accordo, ma fino a questo punto proprio no.

Ho sentito di non poter più scrivere sul giornale che dirigi perché il giornale che dirigi ha pubblicato notizie false o non verificate, reiteratamente, senza riconoscere di averlo fatto e anzi insistendo nell’accreditare le notizie non verificate e censurando le altre, ogni giorno più gravemente: il tutto, in relazione a fatti che, comprenderai, hanno una portata così epocale, così densa di tragedia, così implicante, da rendere a mio giudizio necessaria non già l’opinione uniformata, per carità, ma il rispetto minimo ed elementare della verità.

Il giorno successivo al pogrom del 7 ottobre, l’Unità esce con il pogrom affogato in divagazioni sulla terribilità della guerra. E va bene: è un’impostazione a mio parere discutibile, ma finisce lì. Né mai io mi sono sognato di dirne nulla, né avrei avuto alcun titolo per farlo.

Si salta al 10 ottobre (il 9, lunedì, l’Unità non esce), e l’Unità spara in prima pagina che “l’antiterrorismo”, cioè la reazione israeliana, è praticamente uguale al terrorismo (cioè quello del pogrom del 7 ottobre, su cui non era necessario indugiare troppo). E va bene un’altra volta: è un’opinione, perfettamente legittima. È perfettamente legittimo, cioè, ritenere e scrivere che la distruzione di una base terroristica in un’azione militare che fa vittime civili – non volute, sia pur messe nel conto – sia la stessa cosa che scannare i bambini ebrei nelle culle, violentare le ragazze ebree prima di assassinarle, o giocare a hockey con la testa di un ebreo con un palo di ferro infilato negli occhi, la banderilla della libertà del popolo oppresso che perlustra il cervello del padre fucilato davanti ai suoi figli, poi bruciati vivi.

Va benissimo anche questo (si fa per dire): sono opinioni, che i tuoi lettori possono condividere oppure no.

Proseguiamo. Nel frattempo, dalla memoria dei lettori de l’Unità inopinatamente vaniva il ricordo del pogrom del 7 ottobre, salvo che per gli articoli di un collaboratore (sono io) cui tu, con grande tuo coraggio e mia infinita riconoscenza, consentivi di scriverne, per quanto in collocazione diversa rispetto a quella eminente che concedevi a quel collaboratore se trattava di altri argomenti. Ancora benissimo.

Ma poi arriva il botto all’ospedale di Gaza, e l’Unità esce con questo titolo: “Israele rade al suolo un ospedale: centinaia di morti”. Il titolo guarnisce una fotografia di non si sa che cosa (edifici distrutti, scena diurna). Il fatto, come tutti sanno, era della sera prima, poco dopo le 19.30 (buio pesto). Le agenzie del terrorismo denunciavano, a pochi minuti dall’esplosione, opportunamente ripresa da una telecamera casualmente nei pressi, che si era trattato di un raid aereo israeliano e che c’erano cinquecento morti (contati uno per uno nel giro di circa quattro minuti e mezzo, evidentemente).

Quel titolo era confezionato a sua volta in quello stretto minutaggio, ma non ripeteva, come invece tu mi dicevi, quelli di “tutti” gli altri giornali del mondo, giacché molti (New York Times, Le Monde, Financial Times, Washington Post, Welt, Jerusalem Post, solo per prenderne alcuni) si occupavano bensì della notizia: ma presentandola ben diversamente, e cioè sottolineando che erano le fonti palestinesi, anzi proprio Hamas, a dire che si era trattato di un missile israeliano e che c’erano cinquecento morti. Né poi aveva senso giustificare quel titolo – come tu hai fatto rispondendo al commento di un lettore, Yasha Reibman – richiamando il post su X (già Twitter) con cui «un portavoce dell’esercito israeliano» diceva che era stato Israele a lanciare il missile: se non per altro, perché non era per nulla un portavoce dell’esercito israeliano ma un semplice influencer.

Nel maturare degli eventi, e mentre la “notizia” del raid israeliano e dei certificatissimi cinquecento morti causava l’assalto alle ambasciate e ai consolati israeliani e un certo numero di attentati antioccidentali e antisemiti, si insinuava la propaganda dell’entità sionista secondo cui si sarebbe invece trattato di un ordigno palestinese che, per intenzione di chi lo ha lanciato o per malfunzionamento, era piombato sull’ospedale. Naturalmente questa maliziosa rappresentazione, diversamente rispetto a quella di “Radio Hamas”, non era abbastanza affidabile per essere considerata da l’Unità.

Il giorno dopo, e cioè il 19 ottobre, l’Unità esce con quest’altro titolo: “Israele o Hamas: chi ha tirato il missile? Di sicuro c’è solo che sono morti 500 palestinesi”. Dunque tu il giorno prima scrivi che “Israele rade al suolo un ospedale” e il giorno dopo ti siedi su quel titolo, senza riconoscerne la colpevole avventatezza e dicendo che non si sa chi ha tirato il missile. E perché, il giorno prima si sapeva? Lo sapeva l’Unità, evidentemente. E pace se il giorno dopo l’Unità viene a sapere, ma non lo scrive, che il giorno prima non si sapeva manco per niente. Pace se «di sicuro» non ci sono nemmeno quei cinquecento morti. Pace se associare il titolo sul missile che non si sa di chi sia all’intervista al generale che dice che è sicuramente di Israele rivela – come dire? – un certo orientamento pregiudiziale. Tu pensa che perfino il New York Times si è scusato per essere stato frettoloso e inadeguato: il New York Times – attenzione – che si è reso responsabile di ben più tenue frettolosità e inadeguatezza, visto che nel dare la notizia e nel titolarla già sottolineava, subito, che il raid israeliano e le centinaia di morti non stavano nella realtà accertata, ma nella tesi dei palestinesi («Palestinians say…»).

È finita? Non è finita. Mentre montano le notizie e gli indizi, se non le prove, che non si trattava di un raid israeliano né di cinquecento morti, l’Unità continua a scrivere che «non si sa» (ma come non si sa? Non aveva scritto che Israele aveva raso al suolo l’ospedale?), aggiungendo tuttavia che credere agli israeliani è quanto meno azzardato: soprattutto alla luce di una dichiarazione proveniente da fonte non trascurabile (Hezbollah…), secondo cui l’ospedale sarebbe stato distrutto da una bomba termobarica, il che spiega perché non c’è un grande cratere. La bomba termobarica! La bomba termobarica di Israele! Perché lo dice Hezbollah!

Basta? No che non basta. Perché il 21 ottobre l’Unità titola così: “Israele attacca chiesa ortodossa: è carneficina”. Che è a metà tra un altro falso bello e buono e una sonora contraffazione: perché è vero che c’è stata una carneficina, ma Israele non ha attaccato quella chiesa (integra, by the way). Ha bombardato un sito lì vicino: sbagliando gravemente, a mio giudizio, e appunto facendo colpevolmente tante vittime innocenti. Ma ritengo che si possa – anzi si debba – condannare un bombardamento, pur senza appello, senza tuttavia attribuirlo alla deliberazione israeliana, inventata di sana pianta, di incenerire una chiesa.

E sai perché, Piero? Perché se Israele bombarda deliberatamente le chiese (cosa non vera) poi c’è qualcuno che attacca le sinagoghe, cosa che succede senza che la notizia sia meritevole di prima pagina e neppure di trafiletto. Se Israele è uno Stato terrorista, poi c’è caso che nella tua città, Roma, a pochi passi e a pochi giorni dall’insopportabile retorica sul rastrellamento nel Ghetto, una graziosa fanciulla, tra ali di “pacifisti” che chiedono l’apertura di Gaza per uccidere gli ebrei, strilli «Fuori i sionisti da Roma»: ancora una volta senza che la notizia meriti neppure un francobollo di attenzione.

Questi sono i motivi per cui, con un dispiacere enorme, ho sentito e ti ho comunicato di non riuscire più a scrivere per l’Unità. Un articolo, di Capanna o di chiunque altro, che definisce Israele «il cane da guardia» che gli americani usano «contro i popoli e gli Stati arabi» non mi fa né caldo né freddo e non c’entra proprio nulla. C’entra il fatto che la somma di pubblicazioni inveritiere de l’Unità, che ho messo in parziale rassegna (proprio parziale, ti assicuro), e quegli espedienti di sistematica sfigurazione della realtà, non hanno niente a che fare con le “opinioni” e rappresentano un pericolo: producono danno e, certo oltre l’intenzione, anzi contro l’intenzione, producono violenza. Producono morte. Producono morti.

Infine, e per intendersi (faccio un esempio eccessivo, appunto per capirsi bene): mi va benissimo, si fa sempre per dire, l’opinione secondo cui era giusto sterminare gli ebrei; non mi va bene la propaganda neonazista secondo cui la Shoah è un’invenzione degli ebrei. Ti ringrazio per l’attenzione, se vorrai averne, e in ogni caso ti saluto con stima e amicizia.

Iuri Maria Prado

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