Ho passato il pomeriggio di ieri seduta per terra, in una stanza che da anni dovrebbe diventare un guardaroba ma non mi decido mai a far venire il falegname a prendere le misure, tirando fuori da scatoloni mai aperti di antichi traslochi antichissimi golfini.
La ragione per cui possiedo scatoloni di golfini che non utilizzo è che, come tutte quelle che hanno avuto trent’anni in anni in cui si guadagnava più del necessario, ho comprato in decenni che non sono questo molti più vestiti di quanti me ne servano.
Ciò mi impedisce di verificare la notizia, che sarebbe: la qualità dei capi d’abbigliamento è crollata. Lo dice l’Atlantic, a partire da un tweet in cui si affiancavano una foto di Billy Crystal in maglione bianco in “Harry, ti presento Sally”, e quella d’un tizio che in questo secolo ha un maglione più brutto, con la didascalia «Urge dibattito nazionale sul declino della qualità dei maglioni negli ultimi vent’anni».
L’Atlantic non ha fatto ciò che avrebbero fatto i giornali italiani – limitarsi a riportare il tweet col titolo «Acrilico: infuria la polemica social» – ma ha fatto fare a una giornalista il suo lavoro: telefonare a esperti del settore, controllare etichette, dirci se il cashmere non è più quello d’una volta.
Come detto, non posso contribuire empiricamente. Una volta, quando avevo meno di quarant’anni, un amico s’incaricò di verificare una delle mie ossessioni, quella per certi cardigan sottili, di cashmere, che Miuccia Prada ha fatto per molti anni sempre uguali ma di colori diversi.
Li ha stanati dal disordine dei miei armadi, li ha poggiati in fila su un divano, li ha contati e poi fotografati. Erano alcune decine, era una foto molto imbarazzante. Sembravano le prove per qualche film di Fincher su qualche serial killer. Ci dica, signora assassina, aveva proprio bisogno di ricomprare in azzurro cielo un golfino del quale era già proprietaria in azzurro polvere?
Capirete bene che, messa davanti alle prove del mio disturbo golfinistico, ho smesso di comprare golfini (la menopausa e il riscaldamento globale hanno invero contribuito a farmene passare lo sghiribizzo).
Ho fatto una sola eccezione, un paio d’anni fa, per un golf a righe beige e blu (una vita a inseguire “Vestivamo alla marinara” come una vera parvenue). Era d’una marca media, non Prada ma neppure Zara, e lo indossai con voluttà fino alla prima visita al lavasecco. Me lo restituirono che era un cosino che pizzicava come fosse, appunto, d’acrilico invece che di cashmere. Era perché il cashmere non era più quello d’un tempo, o perché al lavasecco erano degli assassini?
Le mie amiche che comprano ancora abbigliamento dicono che la risposta giusta è la prima. Quando dopo la pandemia sono tornata nei negozi d’alto bordo trovando i prezzi triplicati, alla mia cronaca elle scuotevano la testa: il problema, giuravano, non è che un capo che una volta costava mille euro ora ne costi tremila; il problema è che poi scopri che fa schifo, si scuciono gli orli, si staccano i bottoni, il lusso non è più quello d’un tempo.
La giornalista dell’Atlantic dice che mescolare la plastica alla lana o al cashmere permette tempi di produzione più veloci (non devi aspettare che alle pecore ricresca il pelo). Io mi chiedo che senso abbia comprare un golfino dichiaratamente di cashmere che però non sia morbido come lo sono quelli che non sono misti acrilico. La me bambina diceva, di tutto ciò che non era cashmere, «mi pizzica»; la me adulta si limita a sfilarselo con fastidio.
Forse una generazione per cui è cashmere anche quello di Uniqlo, e lo è in maniera indistinguibile da quello di Cucinelli, ha la pelle meno sensibile. Riferisce l’Atlantic che i multimilionari della Silicon Valley considerano Cucinelli e Loro Piana degli status symbol; aggiungo io che quelli che lavorano per loro non faranno mai la rivoluzione perché non sanno distinguere il puro cashmere dal misto acrilico e quindi pensano che i golf dei plutocrati non siano diversi da quelli che si possono permettere loro.
Neanche spendere è più una garanzia: l’Atlantic riporta che un golf da tremila e duecento dollari che Gucci vende come «di lana» è per metà di poliammide (sto cercando di ricordarmi se ho mai visto promossa la vendita di capi di poliammide).
Ho strappato, sempre perché «mi pizzica», tutte le etichette da tutti i vestiti che possiedo, e quindi non so di cosa siano i golfini che spuntano dagli scatoloni. Questo Gaultier a collo alto e pancia di fuori, un’anticipazione anni Ottanta delle contraddizioni del cambiamento climatico, non mi sembra morbidissimo: sarà già stato misto acrilico sebbene costoso, o di quelle cose tipo shetland che pizzicano anche in purezza, per aristocratici inglesi che devono dimostrare tempra rendendosi la vita scomoda?
Questo Drumohr che era di mio padre è sicuramente cashmere, ma così a righe come si fa a metterselo, sembri un tendone da circo. Non che mi entri, ormai: i golfini sono più indulgenti delle gonne nell’entrarti anche molte taglie più avanti (purché tu possieda dei reggiseni contenitivi), ma questo è proprio minuscolo. L’avrà ristretto qualche lavasecco d’epoca?
Sono infine arrivata ai golfini dei miei anni benestanti. Divorati dagli insetti. La signora che mi ripara i buchi, a Milano, guadagna più d’un cardiochirurgo. Non ha un pos o un registratore di cassa, chiude un mese a Natale e quattro mesi d’estate perché «la nostra clientela non è in città in questo periodo», e per ricucirmi («riparazione invisibile» è la pomposa dicitura) due buchi sui cashmere di Miuccia chiede una cifra con cui chi veste in acrilico cinese si fa l’intero guardaroba nuovo.
Mi chiedo se il suo giro d’affari sia stato inficiato dal ribasso della qualità. Le tarme della lana saranno più selettive dei ventenni, no? Mica si ciberanno con altrettanta voluttà dei golf che millantano d’essere di cashmere ma sono intarsiati d’indigeste fibre acriliche, no?