Nostalgia dell’età adulta Le conseguenze della divulgazione social, mentre il mondo cade a pezzi

Nessuno ha voglia di leggere, ma tutti hanno un’opinione su tutto, specialmente nell’epoca in cui l’informazione ha deciso di assecondare la pigrizia intellettuale del pubblico

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Nessuno ha voglia di leggere ma tutti hanno voglia di scrivere. Penserete che questa frase serva a sintetizzare la crisi del romanzo, e invece: sto parlando non di Israele in sé, ma di come la guerra in Israele ha fatto risaltare le due malattie endemiche del nostro tempo.

Tutti hanno un’opinione su tutto, anche su un conflitto stratificato nei secoli e sul quale, se non tifoso, non ha una risposta definitiva neanche chi lo studia da una vita; e tutti sono ormai abituati a non leggere niente che superi le dieci righe.

È andata così. Quando, più di quarant’anni fa, ero alle elementari, ci facevano comprare dei fascicoli di cui purtroppo non ricordo il nome. Avevano delle schede sugli argomenti, su sfondo arancione. Ritagliavamo con le forbici a punta arrotondata la scheda su siderurgia e barbabietola da zucchero nella tal regione, la incollavamo con l’attaccatutto dal tubetto giallo sul quadernone.

Quali erano le differenze con oggi, che la gente non si vergogna di usare espressioni quali «informarsi sui social network»? La prima era tecnica: le neuroscienze dicono che i gesti fisici – sfogliare, ritagliare, attaccare – facessero imprimere le informazioni nei nostri cervelli con un’efficacia che non ha il prendere a ditate il telefono mentre cinquanta altre notifiche appaiono sullo schermo.

La seconda era anagrafica: avevamo otto anni. Gli adulti leggevano libri, leggevano giornali, andavano persino al cinema: vivevano in quel mondo di istruzione diffusa che è durato pochissimi decenni, ma pensavamo fosse la normalità ormai perpetua, e lo rimpiangeremo per sempre. Quella che oggi ritiene d’essersi informata perché ha letto dei tweet è gente tecnicamente adulta: se da una disabilità cognitiva è afflitta la totalità degli esseri umani, dobbiamo riconsiderare la nostra idea di normalità, o sperare sia curabile?

Non abbiamo visto arrivare l’infantilizzazione del mondo. Quella per cui agli adulti devi dare i libri illustrati, e chiamarli graphic novel. Devi dare le fiabe della buonanotte, e chiamarle podcast. Quella per cui nessun adulto è più disposto a far fatica: la fatica di leggere, di approfondire, di contestualizzare, di unire i puntini, di informarsi, di conoscere.

A proposito di «non abbiamo visto arrivare». L’altro giorno ho visto la rappresentazione plastica del mondo in cui viviamo nelle storie Instagram di una delle più determinate ad allargare il proprio pubblico e quindi il proprio fatturato, abbassando il livello per venire incontro a un pubblico che non sa niente, non legge niente, non intende sforzarsi di avere riferimenti più vecchi di un quarto d’ora.

In una storia Instagram, diceva di sé che non l’avevano vista arrivare. Nella successiva, con lo scrupolo di chi sa che una citazione di otto mesi fa è ormai appannaggio dei laureati in storia, metteva il video di Elly Schlein la sera delle primarie. Certo, spiegare le barzellette fa alzare gli occhi al cielo a noi quattro stronzi che le avevamo capite, ma ti garantisce che il tremebondo e pigrissimo pubblico di questo secolo mai si spaventi per lo sforzo di seguirti.

Ora, se il pubblico medio non riconosce una frase che otto mesi fa gli è apparsa nelle notizie riportate dai social, e da allora è stata citata un po’ da chiunque, pensiamo davvero che sappia qualcosa di medioriente, che cercherà su Google che diavolo sia successo e non si spaventerà scoprendo che la storia non sta nelle dieci righe d’una didascalia di Instagram, che all’inserimento (ipotesi dell’irrealtà, figuriamoci) di “intifada” in un motore di ricerca esso motore non gli suggerirà, caritatevole, «cercavi forse Intimissimi»?

Ieri Assia Neumann ha scritto qui un articolo in cui sbeffeggiava coloro che non prendono posizione perché «è complesso», e io ho immediatamente pensato alla storia Instagram d’una divulgatrice che invitava a informarsi approfonditamente sul tema, e nel farlo linkava a un post Instagram di, giuro, otto righe, scritto da altro divulgatore che secondo lei parlava del tema, giuro che non sto inventando l’avverbio, «compiutamente». Riassuma il candidato Israele e Palestina, mi raccomando compiutamente, ma in meno di dieci righe, ché mica abbiamo tempo da perdere.

Alla complessità, porella, mancava solo il disprezzo esplicito di chi due cose le sa, per rincarare la strafottente indifferenza di chi pensa che «informarsi» significhi leggere quelle che vengono chiamate «slide», quei testi brevi (su sfondo colorato, mi raccomando, sennò ci sembra poco ricreativo e troppo culturale) che vengono condivisi dalle testate su cui s’informa l’esercito del surf.

Alla gara a intervenire per non venire percepiti fuori da quel campo di gioco che è l’argomento di tendenza del giorno – che nel Grande Indifferenziato può essere costituito da centinaia di civili trucidati o da Flavia Vento che dice d’aver visto una qualche madonna: li affrontiamo con lo stesso zelo – mancava solo Assia che dice che, se non opini, sei antisemita.

Forse sono solo due prospettive diverse. Assia vede Kourtney Kardashian o Alessia Marcuzzi che postano il loro bravo penzierino su Israele e si rallegra: meno male, non sono antisemite; io le guardo e penso: ma come ti viene in mente, ma perché devi dirmi la tua, ma non ce l’hai un po’ di senso delle proporzioni, di continenza, di idea del mondo e del ridicolo.

(Naturalmente quello attuale è l’ennesimo esempio della dinamica, e naturalmente quella di Assia è la posizione socialmente presentabile: sembra ieri che, se non postavi il riquadro nero in solidarietà a Black Lives Matter, eri razzista. Una volta ridevamo del gruppo musicale che, a ogni concerto del primo maggio, saliva sul palco urlando «Non c’è primo maggio senza “Bella ciao”»; poi abbiamo smesso di ridere di noialtri che ci sentiamo manchevoli se facciamo passare un 25 aprile senza postare qualche evocazione di qualche avo partigiano più o meno immaginario).

Sento fortissimo la mancanza di mister Pordy, unico studioso di geopolitica che mi abbia mai convinto. Mister Pordy viene evocato, durante l’ennesima crisi mediorientale, dal presidente degli Stati Uniti in una puntata dello sceneggiato televisivo che ci insegnava la politica quando non ce la insegnavano le schede di Instagram.

È un insegnante – di storia? Non lo sappiamo, il signor Pordy viene nominato solo in questa scena, eppure di lui vorrei saperne di più, almeno quanto vorrei uno spin-off sul fratello di Assia che va a protestare contro Nethanyau portandosi un divano – di una delle figlie del presidente degli Stati Uniti.

Il signor Pordy è, evidentemente, sodale di Assia nell’aborrire l’evocazione della complessità, e tuttavia sono abbastanza certa che non inviterebbe le vallette di tutto il mondo a dirci la loro sulle guerre.

«Ellie aveva un insegnante, si chiamava Pordy, che non era interessato alle sfumature. Chiese alla classe come mai ci fossero sempre stati conflitti in medioriente, e Ellie alzò la mano: “È un conflitto religioso che va avanti da secoli, c’entra la terra, e i sospetti, e la cultura, e…” “Sbagliato”, la interruppe il signor Pordy. “È perché fa molto caldo, e non c’è acqua”».

Sono contraria al concetto stesso di divulgazione, ai format moderni fatti per assecondare la pigrizia intellettuale del pubblico, a tutto ciò che non sono volumi di cinquecento pagine che selezionino in partenza chiunque voglia avere l’ardire di parlare di cose complicate. Però un format col fratello Neumann e il signor Pordy seduti sul divano mentre il mondo cade a pezzi, quello lo guarderei.

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