«I tempi non sono ancora maturi». A provare a indagare sulla sorte della poltrona di presidente della Bei, la Banca europea degli investimenti, a margine dello scorso summit dei leader Ue, la risposta era la classica formula abbottonata. A Bruxelles come a Lussemburgo, dove l’istituzione ha sede, e nelle altre capitali, però, tutti sanno che pure per questa corsa vale una massima di saggezza che è il segreto di Pulcinella delle dinamiche comunitarie: la quadratura del cerchio passa da un’intesa Francia-Germania.
Il motore franco-tedesco spesso ingolfato è l’unico che fa ancora muovere l’Europa. «Il lavoro continua nella filiera Ecofin», spiegava un autorevole diplomatico alla vigilia del Consiglio europeo, escludendo un approdo della questione nella sala multicolore dell’Europa Building il 26 e 27 ottobre. In realtà, continua sì a livello di ministri dell’Economia e delle Finanze dei Ventisette, ma nella loro qualità di governatori della Bei, con il titolare delle Finanze del Belgio Vincent Van Peteghem a istruire la pratica.
In corsa come frontrunner nel lotto di cinque candidati sono due figure di primissimo piano della politica europea: la vicepremier e ministra dell’Economia e della Trasformazione digitale della Spagna Nadia Calviño, socialista, e la vicepresidente esecutiva della Commissione e tenutaria della Concorrenza Margrethe Vestager, liberale danese, in aspettativa senza stipendio da inizio settembre.
L’auspicio dei governi è avere per la prima volta una donna al timone della Bei, un po’ come fatto nell’estate 2019, quando si infranse il tetto di cristallo delle stanze dei bottoni europee, indicando la tedesca Ursula von der Leyen alla Commissione e la francese Christine Lagarde alla Banca centrale europea. Parigi e Berlino sono di nuovo impegnate in un negoziato bilaterale, sullo sfondo della più ampia trattativa a ventisette, ma stavolta per conto terzi.
Cioè, seppur ancora a carte coperte, di Madrid. Vista da Bruxelles, dopotutto, con Calviño e Vestager impegnate a serrare i ranghi dei rispettivi campi, la partita è un derby in seno alla maggioranza di larghe intese, e un anticipo della stagione delle nomine che prenderà il via subito dopo il voto delle europee del 6-9 giugno, quando andranno rinnovate la guida tanto dell’esecutivo comunitario quanto dell’Europarlamento e del Consiglio. Oltre che, in blocco, l’intera Commissione.
Ma perché la Bei è diventata di colpo così attraente? In pochi, del resto, saprebbero fare oggi il nome di Werner Hoyer, il tedesco il cui (doppio) mandato è in scadenza il 31 dicembre. Anzitutto, stiamo parlando di quella che, fondata nel 1958 con l’obiettivo di dare prestiti accessibili per i progetti infrastrutturali del dopoguerra, è progressivamente divenuta la principale istituzione finanziaria multilaterale al mondo, con un bilancio (oggi) di oltre cinquecentoquarantaquattro miliardi di euro e un capitale sottoscritto di duecentoquarantanove.
La Bei, che già negli anni Sessanta inaugurò un filone di lavoro extra-Europa, ha sposato la scommessa dell’Unione «geopolitica» che vuole metter mano al portafoglio per finanziare quei progetti che rispondono al suo doppio mantra della crescita verde e digitale. E infatti la Bei ambisce a diventare una Banca globale per il clima, con lo stop dal 2021 al finanziamento dei progetti relativi ai combustibili fossili e l’impegno a portare la quota degli investimenti nella sostenibilità ambientale al cinquanta per cento entro il 2025.
In questo orizzonte si colloca la ricostruzione post-bellica dell’Ucraina, che l’organismo punta a sostenere proprio grazie ai suoi prestiti a tasso agevolato. La mole dei fondi di Next Generation Eu per la ripresa post-pandemica, erogati attraverso i Pnrr, ha invece rilanciato il ruolo della Banca all’interno dei confini dell’Ue.
«Chi non vorrebbe girare l’Europa e il mondo brandendo generosi assegni?», è la battuta ricorrente nei corridoi brussellesi, a voler spiegare l’inedita fascinazione per il ruolo. Le photo opportunity che ritraggono Hoyer, da ultimo in occasione del Global Gateway Forum con cui l’Ue vuole sfidare la Nuova Via della Seta cinese, ne sono una dimostrazione. Insomma, altro che buen retiro dalla politica attiva, l’approdo nell’algida Lussemburgo per un mandato (rinnovabile) di sei anni è garanzia di un protagonismo ecumenico e in ascesa.
Sul nome che dovrà farsi carico dell’impresa, però, l’intesa ancora non c’è. Né l’Ecofin informale di Santiago di Compostela di metà settembre, con la Spagna che giocava in casa, né quello formale di Lussemburgo, esattamente un mese dopo, sono riusciti nell’impresa di rompere lo stallo. Per eleggere il presidente (pardon, la presidente) della Bei serve la maggioranza qualificata, cioè il sostegno di almeno diciotto Paesi (su ventisette), in rappresentanza del sessantotto per cento del capitale della Banca.
Germania e Francia sono, rispettivamente, i due principali azionisti, seguiti dall’Italia in terza posizione: senza Berlino e Parigi a bordo, insomma, è l’aritmetica stessa a negare la vittoria. Roma, però, le sue carte vuole giocarle fino in fondo, puntando, stavolta, su un profilo inattaccabile. E tecnico: l’unico. Quello dell’ex ministro draghiano Daniele Franco, pedigree da riserva della Repubblica con un passato da Ragioniere generale dello Stato e direttore generale di Bankitalia.
La sua candidatura è, formalmente, ancora in campo, tanto che è apparso al fianco del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti in occasione degli ultimi Ecofin. È la moneta di scambio con cui il governo si appresta a barattare concessioni su altri fronti, ma da tenere a bordo campo in vista del valzer delle poltrone del prossimo anno. Completano la rosa dei pretendenti alla successione a Hoyer altri due ex ministri, la polacca Teresa Czerwińska e lo svedese Thomas Östros, attualmente tra gli otto vicepresidenti della Bei.
La Spagna, che da protocollo e da prassi durante il semestre di presidenza del Consiglio parla a nome dei Ventisette e non si fa portavoce del proprio destino, è però impegnatissima a sostenere il nome di Calviño in una maratona senza esclusione di colpi per far scongiurare una nuova sconfitta al fotofinish come quella che vide già la numero due di Pedro Sánchez, due anni fa, perdere la presidenza dell’Eurogruppo in favore del popolare irlandese Paschal Donohoe.
Se il negoziato sul Patto di stabilità e crescita è, per ora, tenuto al riparo dal mercanteggiamento, la sfilza di dossier è comunque ricca: Madrid, ad esempio, avrebbe promesso a Parigi che è pronta a rinunciare alla corsa come sede per ospitare la nuova Autorità europea anticorruzione (Amla) – per cui è in lizza pure Roma – e a convergere sulla capitale francese in cambio del sì a Calviño.
Per convincere Berlino, invece, c’è la comune appartenenza politica alla famiglia socialista, condivisa con il cancelliere Olaf Scholz. Che parrebbe aver convinto il suo irrequieto ministro delle Finanze, Christian Lindner, liberale, a sciogliere la riserva in favore della spagnola, in cambio di una casella da vice per un tedesco gradito. Oltretutto, il nome forte di Calviño per la Bei ha spianato in parallelo la strada a Claudia Buch, numero due della Bundesbank, come nuovo vertice del comitato di vigilanza bancaria della Bce, sbarrandola alla connazionale Margarita Delgado.
In caso di protratta impasse, visto che il pacchetto di voti necessari è sostanzioso, la soluzione di compromesso brussellese è già stata evocata: a Lussemburgo potrebbero finire, terminato il mandato, il vicepresidente esecutivo della Commissione Valdis Dombrovskis, lettone controllore rigoroso dei conti pubblici, oppure il capo del Consiglio europeo Charles Michel, secondo l’adagio per cui c’è sempre un belga a togliere le castagne dal fuoco nell’ora delle nomine. È la corsa per la Bei, ma sembra già il canovaccio del totonomi che ci aspetta dopo le europee di giugno.