Citando i classiciInoltrarsi nella sterpaglia dei ricordi e sconfinare nell’erotismo dell’addio

La quarta puntata del romanzo di Pasquale Panella del quale l’autore non sa nulla, neanche il titolo: «Le parole già sapevano tutto e mi hanno fatto vivere. Le parole organizzate in frasi, le mie frasi. Esse sono il mio coraggio, la mia spavalderia e la mia bellezza»

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Nicola, che come tutti è uno scrittore come tutti, aveva preso questo appunto autobiografico per l’avvenire: «Domani digiuna Nicola». Un memento. Si dice memento, no? Come si scrive, staccato o attaccato? Memento o me mento? È romano latino o romanesco romano? Vado a vedere, non faccio il saccente che ha già compulsato e finge che senza andare a vedere sa già tutto (egli chi? Egli, io? Sono già egli, sono già terza persona? Sto cominciando a imparare i trucchetti?). Vado a vedere e… E questa ve la devo raccontare (oso già la narrazione?). Non posso trattenermi, non posso che essere sincero (come dire: mi arrendo), sono andato a cercare e, lasciamo perdere se attaccato o staccato, vi devo mettere a parte – che comoda espressione “mettere a parte”: un’offerta di confidenza e nello stesso tempo un levar di torno – vi devo mettere a parte di questa scoperta etimologica.

Eccola, arriva: memento, dal latino, è imperativo futuro di (reggetevi) meminisse. Meminisse, non è bellissimo? Perché non posso non dirmi latino? Ecco perché. Meminisse: è la scoperta di una farfalla mai vista ma intuita nella forma e nei magnifici colori spettrali (da satellite) di un ciclone disastroso agli antipodi (non sentite anche voi il solleticante e innocuo battito d’ali di farfalla sulla guancia del nostro emisfero?). Memento vuol dire ricorda, domani ricorda. Figuratamente: promemoria, un appunto. Non m’ero sbagliato a fidarmi di me, della mia memoria involontaria. Vuol dire ricordatene poi (l’ho già detto ma è per non dimenticare). «E chi ti si scorda a te?», l’espressione non è mia, è un ricordo nel mio promemoria involontario. Me ne voglio liberare qui (è anche purgante lo scrivere, è un purgatorio?). La frase fu pronunciata per nostalgia, nostalgia dell’indimenticabile John Charles, e faceva così per intero:  «Johnny… e chi te se scorda a te». Il gigantesco John Charles, buono e gigantesco, in internet c’è tutto. Cosa vado a ricordare. Scrivere è anche questo? Inoltrarsi nella sterpaglia del ricordo tra spini e soffioni e sempre tornare avendo rimediato un paragrafo e qualche graffietto. Anche questo è scrivere? Domani saprò. Meminisse, oh meminisse.

Ho un dubbio: che l’indimenticabile John Charles non fosse John Charles ma Lojacono, Francisco Lojacono. O era Schiaffino? Di Stefano, forse? Angelillo? Ah, Nicola, sì. M’ero scordato Nicola. Nicola leggeva ogni giorno la sua frase appuntata, il monito, il memento: «Domani digiuna Nicola». E diceva: domani, non oggi, oggi si mangia. Perché domani è sempre un altro domani. Capìto com’è? Questo ammaestramento me lo ripeteva mia madre (l’ho già detto?) perché dimenticavo i miei propositi (dimentico magnificamente quello che dico) o ricordavo soltanto di aver detto domani, sempre domani (ho una memoria futura). E così sto per prendere una decisione: domani mi metto a scrivere. Non l’ho fatto finora, lo farò da domani. Non pretendo che chi l’ha fatto finora la smetta da domani. Non lo pretendo ma, insomma, ognuno ascolti la sua coscienza. Questa frase, «ognuno ascolti la sua coscienza», da dove mi viene? Non è mia. Da dove cola, o sale? Non ho coscienza di alcuna coscienza, non sono coscio dell’incoscio (si scrive inconscio, con due enne dentro, no incoscio, ignorante sconscio, ma dove vivi?). Nemmeno in coscio, così, staccato? (Certe volte sono davvero irritante). Persona in coscia, forse? (Ma lo faccio apposta?). Scrivere è anche scrivere di scrivere? Soprattutto. Chi ha un animo sregolato e fuorilegge scrive solo di scrivere. Il primo libro e chi lo scrive ruotano mescolati in vortici di megalomania infantile (mi sto già recensendo, insinuo fascette editoriali). È stato già detto che i personaggi percorrono i romanzi come un gruppo di adolescenti un luna park (le battute non troppo riuscite le attribuisco).

La camminata dell’adolescente è tutto un programma, un prossimamente, la parodia della vita futura, anticipata come imitazione beffarda. Ci vedi tutte le età fino all’ultima, le baldanze iniziali, i traballanti finali, le ostinate impuntature da cavallo, le piroette da disorientamento, giravolte, voltafaccia, boccacce, smorfie, affronti, brusche inversioni, presidenze, servilismi, direzioni, arroganze, amministrazioni, sportelli, il caracollare dei crolli, le versioni farsesche di un serio avvenire in cartellone, le burlesche finzioni di quel che severamente avverrà, ma per ora si ride. Per ora la ragazzaglia è ancora certa che sia per finta la vita. La ragazzaglia struggente: «Ecco a noi dove andremo a finire da grandi», già detestando la mascherata della maturità. Agitazione, inquietudine, la smania di prendere in giro, di sbeffeggiare, di deridere l’evoluzione futura di ognuna e di ognuno e la propria. La ragazzaglia sa. Potresti leggere, come sulla passatoia srotolata e sgualcita sotto le loro andature sbandanti e scomposte, rotanti, da trottole, queste vite già scritte ma dovresti avere un allenamento e un passo da romanziere ottocentesco per stare dietro a quelle prime stesure che rotolano. Ma, sai, non è più quel tempo in cui la vita scrive per farsi leggere. Perciò lascia perdere, non ti ci mettere a scrivere vite, non è più quel tempo, non abbiamo più quel tempo, quel tempo romanzesco, il tempo in cui la vita si lasciava scrivere, quel tempo in cui chi scriveva pensava che si potesse vivere per scrivere, che si potesse vivere del vivere sulle pagine. Non è nemmeno più quel breve tempo canagliesco (tu lo conosci), rapido, anche furente, beffardo, quel tempo nel quale tu in prima persona fai il cattivo soggetto scanzonato, irridente, dedito alle scorrerie e al saccheggio veloce, tre, quattro minuti, cinque, to’, e via, di corsa a conoscere i tuoi diritti, quelli sì finalmente sonanti e cantanti, intonati e a tempo col tuo tempo e che non aspettano altro che di farti contento, al tempo di quel tuo tempo equivoco.

Tutto questo perché? Perché lei ti si facesse vicina fino a toccare la più estrema delle vostre vicinanze solo per chiederti «perché lo hai fatto?». «Perché lei venisse a chiedermelo», le rispondi. Ma che? Le dai del lei? Anche da così vicino? Avessi saputo leggere avrei letto qualche classico, giusto le prime righe là dove è scritto (è pressappoco l’incipit di tutti i classici) che la scrittura con la sua qualità soddisfa i bisogni e i desideri umani di qualsiasi tipo, e non cambia nulla se i bisogni e i desideri provengono dalla testa o provengono dallo stomaco, nemmeno è importante come (il sopravvalutato come) li soddisfi: vuoi come oggetto di appagamento dell’animo, del corpo e del cuore, vuoi come mezzo di produzione ovvero messa a frutto dei palpiti, degli ansimi, dei battiti. La questione è sempre quella: chiamare le cose con il loro nome. Quale (per favore non correggetemelo, una sola cosa odio, e quella cosa è il compiaciuto, l’ostentato “qual” del cazzo senza lo schizzetto dell’apostrofo… “qual” che sta per “come”, un altro come, sempre come, sempre utilizzato, appunto, a cazzo)… Quale è il nome della cosa? Lo dice la parola stessa, il nome della cosa è cosa. È una parola che spesso mi appare sulla pagina. Mi sono chiesto perché (davvero me lo sono chiesto?). Lo sapevo, ma se avessi letto i classici avrei saputo, prima ancora di saperlo da me, che la cosa è l’oggetto esterno, ecco subito un esempio: la cosa che state leggendo. La scrittura è la cosa, l’oggetto esterno, la merce, nuda o nel costume del tempo. Non fu solo una questione personale. Possiamo parlare di una presa di coscienza di classe? (Chi ha parlato?). No, anche perché me ne sono reso conto tardi, molto tardi, direi: poco fa. Le parole già sapevano tutto e mi hanno fatto vivere. Le parole organizzate in frasi, le mie frasi. Esse sono il mio coraggio, la mia spavalderia e la mia bellezza. Per mettere a frutto e a profitto le loro seduzioni si lasciano fare tutto. Essendo scritte sulla nuda pelle si fanno perfino lèggere, con qualche difficoltà nei punti oscuri. Mi amano.

Sempre citando i classici: il corpo della merce è valore, bene e virtù che si realizzano soltanto nell’uso e nel consumo, così che, nell’uso e nel consumo, è la che sono i contenuti, è là che è contenuta la ricchezza, che assume diverse forme a seconda delle diverse forme sociali (se la ricchezza fa una brutta impressione è perché la forma sociale all’interno della quale la ricchezza è prodotta è brutta in maniera impressionante: mi pare chiaro che potrei dedicarmi seriamente alla scrittura di uno spettacolo di varietà solo se tratto da Il Capitale). E nemmeno le proteggo, anzi le spingo a esporsi, le mie frasi. Anche oltre i limiti, e questo è un vantaggio perché esse sono sempre un po’ più in là da dove si crede che siano, sconfinanti, sono presenti come può essere presente un addio, le frasi sul rigo, su quella linea di trasporto, di coincidenze tra arrivi e partenze delle parole viaggianti. Le frasi, amanti delle stazioni, delle destinazioni. Dedite all’erotismo dell’addio, agitano le loro mani abili (quelle loro umide dita) e i loro fazzoletti di carta. Svelte di prestazione, persistenti nel ricordo, le frasi. Come ha detto prima? Quella parola, il termine che lei ha usato: classe. La classe, sì, intendeva forse quel certo stile, il tocco? Ma a chi sto parlando? Che dire? Che fare, direi. Che altro dirle se non: «Posso entrare? È permesso?». Sono il romanzo all’inizio, no? Alle prime esperienze. Che altro? Sì, forse questo: che non ho stravaganze sperimentali da offrirle al momento. Ah, sì, una sola: darle del lei in amore. Prego, si accomodi, venga. (In seguito però devo scrivere puntate più brevi, direi la metà di questa. Devo ricordarmene. Questo è un promemoria per me, un memento. Me mento?) 

(4 Continua)

Questa è la quarta puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere la terza. Qui la seconda. Qui la prima.

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