Buone intenzioniL’accordo sul clima tra Usa e Cina può essere una notizia incoraggiante per la Cop28

A Sunnylands, Washington e Pechino hanno fatto un passo indietro per farne un paio avanti in direzione Dubai, dove dal 30 novembre si terrà la conferenza sul cambiamento climatico. Ma sul medio-lungo termine le prospettive sono tutt’altro che scontate: Xi Jinping non ha nessuna intenzione di farsi pressare o dettare l’agenda

Doug Mills/The New York Times via AP, Pool

L’atmosfera generale dei rapporti bilaterali è migliorata, dunque è possibile cooperare anche sul clima. Stati Uniti e Cina hanno allentato le tensioni durante l’atteso summit di San Francisco tra i due presidenti, Joe Biden e Xi Jinping. Un disgelo, quantomeno temporaneo, ha prodotto maggiore calore nei colloqui sulla lotta al cambiamento climatico. Anche se tutte le promesse di lavoro comune vanno guardate alla luce della consapevolezza che le tensioni strategiche tra Washington e Pechino sono qui per restare e che l’etichetta forse più corretta da apporre ai risultati raggiunti durante il vertice è quella di «stabilizzazione del disaccordo». 

È pur vero che, se Taiwan e la tecnologia sono i dossier dove le posizioni sono più lontane e forse inconciliabili, il clima è uno di quei temi in cui esistono interessi reciproci. Non a caso il summit tra Biden e Xi è stato anticipato di qualche giorno dall’ennesimo round di colloqui tra John Kerry, inviato speciale della Casa Bianca per il clima, e l’omologo cinese Xie Zhenhua. Dopo essersi già incontrati lo scorso luglio a Pechino, stavolta i due hanno tenuto diversi colloqui tra il 4 e il 7 novembre a Sunnylands, California. Un piano congiunto intitolato Dichiarazione di Sunnylands sul rafforzamento della cooperazione per affrontare la crisi climatica è stato pubblicato in concomitanza dell’atterraggio di Xi a San Francisco e poco prima del suo incontro con Biden.

I due principali inquinatori al mondo (insieme rappresentano il trentotto per cento delle emissioni di gas serra globali) hanno dichiarato il rilancio di un gruppo di lavoro comune sul potenziamento dell’azione per il clima negli anni 2020. Il gruppo si concentrerà su «transizione energetica, metano, economia circolare ed efficienza delle risorse, province/stati e città a basse emissioni di carbonio e sostenibili e deforestazione».

A livello di principio generale c’è il riconoscimento comune che serve accelerare gli sforzi e che serve farlo insieme, visto che in assenza di cooperazione tra i due Paesi diventa difficile raggiungere obiettivi concreti e ambiziosi a livello globale. Stati Uniti e Cina hanno poi ribadito gli impegni presi nell’Accordo di Parigi del 2015 per mantenere «l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei due gradi celsius e a proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5 gradi celsius».

Entrambi i Paesi hanno concordato di «perseguire gli sforzi per triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale entro il 2030». Tale crescita dovrebbe raggiungere livelli sufficientemente elevati «da accelerare la sostituzione della produzione di carbone, petrolio e gas», si legge. Entrambi i Paesi prevedono una «significativa riduzione assoluta delle emissioni del settore energetico» in questo decennio. 

Una promessa non banale per Pechino, che ha anche accettato di fissare obiettivi di riduzione per tutte le emissioni di gas serra. Si tratta di un altro tassello significativo perché l’attuale obiettivo climatico cinese riguarda solo l’anidride carbonica, tralasciando il metano, il protossido di azoto e altri gas.

Nella sezione dedicata alla transizione energetica si propone di portare avanti almeno cinque progetti di cooperazione su larga scala entro il 2030. Si garantisce che verranno approfonditi gli scambi politici sulle soluzioni per il risparmio energetico e la riduzione delle emissioni di carbonio e riavvieranno «dialoghi bilaterali sulle politiche e le strategie energetiche», pur senza fissare parametri chiari. Anche per ridurre le emissioni di metano e di altri gas serra non CO2, le due parti «avvieranno immediatamente una cooperazione tecnica di gruppo». 

Il documento riconosce anche l’importanza dello sviluppo dell’economia circolare e dell’efficienza delle risorse nell’affrontare la crisi climatica: «le agenzie governative competenti dei due Paesi intendono condurre al più presto un dialogo politico su questi temi e sostenere le imprese, le università e gli istituti di ricerca di entrambe le parti a impegnarsi in discussioni e progetti di collaborazione», si legge, insieme alla promessa di sviluppare uno strumento internazionale giuridicamente vincolante per ridurre l’inquinamento da plastica. Altre discussioni vengono annunciate sul contrasto alla deforestazione e l’emissione di gas serra. Entro il 2024 verrà organizzato un evento «di alto livello» per la cooperazione «subnazionale» attraverso il coinvolgimento di think tank, istituti di ricerca e altre entità impegnate nel contrasto al cambiamento climatico.

I media cinesi, a partire dal tabloid nazionalista Global Times, ha definito il documento una «svolta». «La novità principale è che prevede un approccio dall’alto verso il basso in cui i governi guidano un gruppo di lavoro per assicurarsi che gli obiettivi siano realizzati, invece del solito modello dal basso verso l’alto, quando i Paesi sollevano i propri obiettivi ma non hanno un progetto superiore che li aiuti a trasformarli in realtà», ha dichiarato Yang Fuqiang, ricercatore presso l’Istituto di ricerca sull’energia dell’Università di Pechino. «Questi segnali suggeriscono che entrambi i Paesi stanno assumendo l’impegno più serio di sempre nella cooperazione sul clima», ha aggiunto Yang. 

Importante però sottolineare anche quanto non trova posto nel documento. In particolare, non appaiono promesse della Cina di eliminare gradualmente l’uso massiccio di carbone, il combustibile fossile più sporco, o di interrompere l’autorizzazione e la costruzione di nuovi impianti a carbone. Nessun obiettivo esplicito nemmeno sul metano, altro snodo critico. 

La Cina ha sin qui rifiutato di aderire al Global methane pledge, un accordo tra più di centocinquanta Nazioni che promette di ridurre collettivamente le emissioni del trenta per cento entro il 2030. L’attuale impegno prevede che le emissioni di anidride carbonica raggiungano il picco prima del 2030, ma non specifica quanto potrebbero salire prima che la curva cominci a piegarsi. 

In realtà, il documento pare pieno di buone intenzioni la cui messa in pratica non è scontata. Ci si dice che si vuole lavorare insieme ma ancora non si sa bene in che modo lo si farà. Il risultato sembra dunque soprattutto quello di essere riusciti a riportare la situazione indietro di due anni, quando alla Cop26 di Glasgow Cina e Stati Uniti istituirono quel gruppo di lavoro comune che ora viene riavviato e istituzionalizzato. In mezzo, uno stop dovuto anche e soprattutto all’inabissamento della relazione bilaterale, tra la visita di Nancy Pelosi a Taiwan e la vicenda del presunto pallone-spia. 

Come si tradurrà questo desiderio di cooperare sui lavori della Cop28? Il documento di Sunnylands presuppone un’azione comune a Dubai. La sede degli Emirati Arabi Uniti, Paese con cui sia Washington sia Pechino perseguono rapporti profondi, potrebbe favorire la riuscita del tentativo. Stati Uniti e Cina propongono un vertice sul metano e sui gas serra non CO2. Basti vedere quanto accaduto negli ultimi due anni. Alla Cop26, la prima sotto l’amministrazione Biden, Kerry e Xie avevano trovato l’accordo per il gruppo di lavoro comune. Risultato facilitato dall’allora presunzione cinese che col presidente democratico i rapporti sarebbero migliorati rispetto all’era di Donald Trump, nonché per la fama di “colomba” dello stesso Kerry quando si tratta di Cina. La Cop27, invece, è naufragata anche a causa del grande gelo politico sceso tra i due Paesi. 

Nonostante gli insistenti tentativi di Kerry e dell’amministrazione Biden di separare il dossier clima dal resto delle relazioni, infatti, la Cina continua ad avere un’interpretazione olistica dei rapporti bilaterali. Significativa in tal senso una frase pronunciata dal ministro degli Esteri Wang Yi proprio a Kerry lo scorso luglio durante il loro incontro a Pechino: «Gli Stati Uniti vogliono trasformare la cooperazione sul clima in un’oasi nelle relazioni bilaterali. Ma se l’oasi è circondata dal deserto, diventerà presto desertificata». Insomma: non può funzionare qualcosa, se non funziona tutto. 

Ecco perché è importante che Xi sia andato a San Francisco da Biden e che sia stato riavviato il dialogo su tutti i fronti, compresa l’economia e la sicurezza. La vicinanza con la Cop28 fa sì che l’evento di Dubai ne possa risentire in modo positivo. Ma sul medio-lungo termine le prospettive sono tutt’altro che scontate. Anche perché le visioni continuano a essere divergenti su un punto fondamentale. Pechino si ritiene ancora un paese via di sviluppo e chiede responsabilità sì comuni, ma minori rispetto a quelle dei paesi pienamente sviluppati. La conseguenza è molto pratica: i funzionari di Pechino hanno affermato che l’obiettivo americano di ridurre l’inquinamento di almeno il cinquanta per cento rispetto ai livelli del 2005 entro la fine di questo decennio è inadeguato. 

Ma allo stesso tempo la Cina non ha nessuna intenzione di farsi pressare o dettare l’agenda. Sempre a luglio, Xi non ha ricevuto Kerry durante la sua permanenza a Pechino ma aveva mandato un messaggio molto chiaro durante un suo contestuale intervento a una conferenza sulla protezione ecologica e ambientale. In quella sede ha ribadito l’impegno incrollabile a raggiungere il picco delle emissioni entro il 2030, ma ha aggiunto che la Cina non si farà influenzare da altri nel determinare i suoi obiettivi. Una posizione non accettabile per una discreta parte del Congresso Usa, per cui la seconda economia mondiale dovrebbe adattarsi agli standard statunitensi. La partita è persino più vasta, visto che la posizione espressa dalla Cina è funzionale anche a farsi portabandiera delle istanze dei Paesi emergenti e del cosiddetto Sud globale.

Sui media cinesi viene poi sottolineato che le prossime elezioni statunitensi potrebbero cambiare tutto: «Gli Stati Uniti devono superare le loro inversioni di rotta sulle politiche climatiche durante la transizione di mandato, in quanto i Democratici sono proattivi mentre i Repubblicani sono più sospettosi sulle questioni climatiche», si legge sul Quotidiano del Popolo. D’altronde, Donald Trump ha già promesso che in caso di ritorno alla Casa Bianca bloccherà l’azione per il clima e incoraggerà ulteriori trivellazioni petrolifere, la fratturazione del gas e l’estrazione del carbone.

C’è poi un’ultima incognita. Poco dopo la fine della Cop28 e comunque entro la fine dell’anno, l’inviato per il clima cinese Xie dovrebbe andare in pensione. Una brutta perdita per la diplomazia sino-americana. Xie e Kerry hanno infatti un rapporto molto cordiale e molto stretto, forgiato in decenni di incontri e conoscenza reciproca. Non solo. Xie è un veterano della diplomazia climatica, ambito in cui opera dal 1999. Il suo presunto sostituto, Liu Zhenmin, è invece un ex vice ministro degli Esteri e attuale sottosegretario generale delle Nazioni unite.

Insomma, a Sunnylands la Cina e gli Stati Uniti hanno fatto un passo indietro (al 2021) per farne un paio avanti in direzione della Cop28. Ma i fondamentali del rapporto restano complicati e la cooperazione sul clima resta esposta all’atmosfera generale delle relazioni bilaterali, su cui non è difficile prevedere nuove turbolenze in futuro.

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