Del kitsch, scriveva Gillo Dorfles cinquantacinque anni fa, si può ragionare solo al presente. Ogni discorso sul gusto deve tenere conto dei suoi mutevoli parametri, e quindi del periodo in cui il prodotto di quel gusto si colloca.
Aveva ragione, aveva torto. Ci ho pensato durante una scena di “The Crown” sullo yacht degli Al Fayed, uno yacht in una sala del quale c’è un pianoforte a coda, e non riesco a pensare a una cosa più cafona del pianoforte a coda in barca né nel 1997 né oggi, ma la differenza tra allora e oggi è la possibilità di parlare del cattivo gusto di un ricco arabo senza venire accusati d’un qualche tipo di discriminazione.
Per fortuna Peter Morgan, l’inventore di “The Crown”, è un maschio bianco, l’ultima categoria che è universalmente concesso non solo criticare ma persino insolentire, così possiamo dire che non c’è una storia più kitsch di quella che ha appena messo in scena, nella prima metà dell’ultima stagione dello sceneggiato più pretenzioso che la tv abbia mai trasmesso.
La storia di Diana Spencer, la principessa smaniosa che voleva ribellarsi al palazzo e finisce per morire giovanissima, e non c’è espediente più kitsch di quello del fantasma di Diana che nella quarta puntata di quest’ultima stagione compare a Carlo e a Elisabetta. Se Dorfles me lo concede, vorrei al presente dire che non c’è epoca più kitsch di questo secolo, il cui mito fondativo è appunto Diana Spencer.
Ci sono, in quel gruviera drammaturgico che è la ricostruzione dell’ultima estate di Diana Spencer da parte di “The Crown”, almeno un paio di trovate meritevoli, che ci spiegano ciò che all’epoca eravamo troppo giovani per capire, e su cui nei ventisei anni successivi abbiamo ragionato molto ma mai abbastanza.
La principale è Dodi. Dodi che aveva una fidanzata e stava per sposarsi; Dodi cui – colmo del kitsch – il padre dice che, se conquisterà Diana, lo considererà finalmente un suo pari; Dodi cui Diana – perfetta per rilanciare con uno stracolmo dello strakitsch – dice che lei mica può sposarlo così finalmente suo padre gli vorrà bene.
Non c’è il momento in cui il delirio del vecchio Al Fayed comincia a sembrare una buona idea a Dodi ma soprattutto a Diana: non c’è il momento in cui quell’ossessione che sta solo nella testa del padre diviene una relazione (forse far apparire un fantasma sarebbe stato risolutivo). Sembra un buco di sceneggiatura (uno dei tanti) ma forse è un editoriale.
Forse era il tassello sul quale non ci eravamo soffermati abbastanza, noi studiosi del dianaspencerismo: il caso, l’accidente, la capacità della sfiga di congelare un momento e dargli un’importanza che mai avrebbe avuto.
A volte il tizio con cui muori non è Romeo Montecchi, non è il grande amore della tua vita tragicamente breve. A volte sarebbe solo un flirt di nessuna importanza, un’estate fra tante, com’è ovvio pensare dell’estate dei propri trentasei anni: ce ne saranno moltissime altre, e con esse moltissimi flirt. E invece morite, e i vostri destini sono legati per sempre, l’importanza della vostra storia assume dimensioni che mai sarebbero esistite se la morte da giovani non avesse il portato di far prevalere la leggenda sulla realtà.
Un altro dettaglio ovvio, ma su cui non avevamo ragionato forse abbastanza, è che quella è l’estate delle mine antiuomo. È l’estate in cui, subito dopo aver visto per quella che sarà l’ultima volta i suoi figli, e prima di tornare da Dodi in Francia, Diana va a farsi fotografare mentre cammina in mezzo alle mine antiuomo, in Bosnia.
Viste di fila queste due gite, nella stessa puntata di sceneggiato televisivo, è così ovvio che ci si chiede come non sia stata quella l’interpretazione principale di quell’estate, da parte di tutti noi che ci siamo nei decenni affannati a scriverne: la pulsione di morte. Il tunnel dell’Alma come compimento di quel desiderio neppure poi così recondito: eri in Bosnia un attimo fa, a rischiare di farti saltare in aria davanti ai fotografi, più esplicita tensione verso la morte di così.
Del gusto non si può ragionare se non al presente, e dell’industria culturale pure, tuttavia un’altra cosa alla quale non avevo pensato prima di “The Crown” (i prodotti mediocri sono come le domande imbecilli nelle interviste: ti fanno venire molte più idee di quanto facciano quelle intelligenti) è: ma com’è possibile che la tv ci abbia messo così tanto a inventarsi i reality?
Com’è possibile che su quello yacht col pianoforte a coda, e i paparazzi fuori, e la fidanzata di Dodi relegata sullo yacht minore a non disturbare l’idillio tra la principessa e l’erede di Harrods, com’è possibile che quella vacanza non fosse costantemente ripresa da una troupe che avrebbe filmato roba che altro che “Keeping Up with the Kardashians”?
Non importa se nella versione di Peter Morgan nulla è vero, e se la presunta accuratezza storica che riprende tutto dalle immagini d’epoca e fa andare Diana al mare con una borsa di pelle bianca, santiddio, finisce a pernacchie quando il paparazzo che sta andando a fotografarla sfoglia un articolo su di lei sul rotocalco Sì!, proprio col punto esclamativo.
Sei lì che passi il pomeriggio a chiederti se sia possibile che sia esistito negli anni Novanta, anni in cui come tutti passavi ore nelle edicole, un settimanale scandalistico o un rotocalco familiare di cui non hai memoria. Chiedi a chiunque fosse vivo allora, e chi lavorava nei giornali si divide in chi sa le cose e dice subito «No», e chi è suggestionabile e dice «Ma ora che me lo dici forse qualcosa mi evoca» (e i tribunali che ancora si affidano alle testimonianze).
Poi torni a guardare la scena e, grazie a un fermoimmagine, scopri che secondo la serie che si dà toni d’accuratezza storica il giornale Sì!, nel 1997, costava 1 euro, cioè si comprava in una valuta che non sarebbe esistita per altri cinque anni.
Se ragionassimo con quelle categorie lì, dovremmo dire che allora “The Crown” è trash, si dà un tono ma poi casca sui dettagli come le più sciatte produzioni regionali, ma forse l’euro è un fantasma: come quello di Diana che dice a Elisabetta che facendo la guerra a lei, meccanica divina, l’hanno fatta al sentimento popolare; come quello di Dodi che appare al padre innervosito dal non essere suo figlio un morto celebre quanto Diana.
Forse, persino quando si svela come trash, “The Crown” resta comunque quel monumento al kitsch che non può non essere la rappresentazione coi sosia del Bagaglino della vita della donna che ha fatto del sentimentalismo, del ricatto emotivo, dello sciampismo ammantato di contenuti profondi e di dolenze riflessive la cifra del secolo che, morendo, ha fondato.
Ancora più dei decenni, i secoli non sono questioni di calendario ma di percezione culturale, e il Novecento finisce in una qualche data tra il 31 agosto e il 6 settembre del 1997, tra il momento in cui Diana ottiene quella vita eterna che si può avere solo morendo al picco della fama, e quello in cui il quindicenne William si chiede perché la gente pianga per una tizia che neppure conosceva. L’ha raccontato lui anni fa in un documentario, e Morgan ha fatto bene a usare il dettaglio così splendido da sembrare finto. Nella serie, il principe Filippo gli risponde che non piangono per lei: piangono per lui che è diventato orfano. Non poteva sapere, Filippo, che piangevano perché erano gli esponenti d’un nuovo secolo, fondato su un sentimentalismo ricattatorio e appiccicoso che ha smesso d’essere kitsch ed è divenuto norma neutra.
Un secolo che ha tra i suoi comandamenti l’illusione di conoscere gente che hai visto, in ordine crescente di familiarità, sui giornali, alla tv, nel telefono. Un secolo di relazioni immaginarie, buone cause fotogeniche, e identificazioni ricattatorie. Il secolo di Diana, dea del kitsch.