Lettera al mondo L’algoritmo è scemo, ma mai quanto quelli che Bin Laden è un woke che sbaglia

Smettiamola di dare retta alla stronzata del giorno, agli umori dei giovani frignoni che lodano la guerra santa. Non è che ci possiamo aspettare che una generazione coi video da due minuti impari la storia in un posto che non sia Netflix

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La vita è l’unica sceneggiatrice che non avrà mai bisogno del sussidio di disoccupazione, che non si ritroverà mai superata dalla realtà, a chiedersi perché diavolo quest’idea non sia venuta a lei.

Ne abbiamo continue conferme, e io l’ultima l’ho avuta ieri, quando le nuove puntate di “The Crown” sono arrivate su Netflix nel giorno in cui tutti, ma proprio tutti, commentavamo l’ultimo delirio della generazione che nun sape mai nu cazz’: i video su TikTok in cui ragazzi con più piglio che strumenti culturali ci spiegano che quel Bin Laden avrà pure avuto un brutto carattere, ma aveva le sue ragioni.

Se pensate che le prime puntate della stagione conclusiva dello sceneggiato sulla famiglia reale inglese, ambientate nell’estate del 1997, non c’entrino con la lettera del 2002 con cui Osama Bin Laden rivendicava gli attentati dell’11 settembre 2001, o coi giovani esseri umani che ventun anni dopo scoprono una delle molte cose che non sapevano e immediatamente si fanno un’idea della storia fin lì non studiata, significa che nel 1997 non siete stati attenti.

Non siete stati attenti quando tutti, ma proprio tutti, eravamo convinti che Diana l’avesse fatta ammazzare Elisabetta. Non poteva rischiare che la madre dell’erede al trono avesse un figlio marroncino, ci dicevamo, giacché allora avevamo più paura dei fatti che delle parole e ci azzardavamo quindi a dire che, se ti accoppiavi con un arabo, il frutto dei tuoi lombi sarebbe stato d’un impresentabile marroncino. Da qui in poi: color Bin Laden.

Eravamo gente che aveva studiato, gente che leggeva i giornali (nientemeno), i libri (addirittura), ma più di tutto: eravamo giovani. Io avevo ventiquattro piccolissimi anni, e un vantaggio di cui allora non capivo la portata: non mi si filava nessuno. Nel mio telefono non c’era una telecamera, nella società in cui abitavo non c’era uno spasmodico interesse per gente che non sapeva cosa fossero l’Irpef, la prostata, i conteggi pensionistici.

Potevo credere a tutte le teorie del complotto, bermi tutte le stronzate, essere convinta di saperla lunghissima e che i giornali non ce la raccontassero giusta: ero libera di pensare tutto, giacché le mie bislacche convinzioni non facevano notizia, nessun organo d’informazione serio riprendeva le mie chiacchiere in libertà, e nessuno era timoroso d’offendermi.

L’altra sera ho guardato un film su Prime. È un film del 2001 che probabilmente avete prima o poi visto tutti, una commedia del sottogenere «tizia che tutti credono scema giacché belloccia poi si rivela un genio», s’intitola “Legally Blonde”. In “Legally Blonde” ci sono collaboratori professionali (in inglese: associates), beni da dividersi tra ex coniugi (in inglese: assets), compiti da portare alle lezioni universitarie (in inglese: assignments).

Solo che, terrorizzati di offendere qualcuno, a Prime hanno inserito in qualche intelligenza artificiale non particolarmente intelligente l’informazione che «ass» significa «culo» e non è proprio una parola che i giovani spettatori possano vedere senza sentirsene offesi. Quindi nei sottotitoli inglesi i collaboratori diventano ***ociates, i beni ***ets, i compiti ***ignments.

La mia generazione, fatta dei peggiori genitori della storia dell’uomo, dice che i giovani d’oggi hanno ogni ragione d’essere turbati per tutt’una serie di traumi che vanno dagli attentati alle pandemie passando per l’intelligenza artificiale che li lascerà disoccupati. Guardi quei sottotitoli e pensi: ma questa intelligenza artificiale qui?

Ma anche: guardi quei sottotitoli e pensi, ma se pure ass non fosse una sillaba ma una parola, se pure un culo fosse un culo, che male farebbe? Di conseguenza, non vorrei esagerare con la mia capacità di rendermi antipatica a tutti i lettori di tutte le curve di tutte le tifoserie di tutti i dibattiti, ma: se anche questi cretinetti accendono la telecamera e dicono che in fondo Bin Laden era un bravo guaglione, importa qualcosa?

Diceva Rhett Butler – un personaggio di “Via col vento”, un film che i giovani tiktoker non hanno visto perché «Eh, ma non ero ancora nato» o perché «Orrore, non condanna lo schiavismo» – di avere un debole per le battaglie perdute, «ma solo quando sono perdute veramente». Da rhettbutleriana della primissima ora, vorrei perorare la causa di smetterla di dare retta alla stronzata del giorno, agli umori dei ventenni, ai pareri di chi accende la telecamera del telefono.

Ieri, mentre guardavo la tesi complottista di “The Crown” sulla relazione tra Dodi Al Fayed e Diana Spencer (secondo gli sceneggiatori, orchestrata da Mohammed Al Fayed, e praticamente imposta a quel giovane coglione del figlio), mi comparivano tweet (o come si chiamano ora) sui giovani fregnoni che trovano giustificazioni postume al malumore di Osama Bin Laden.

Quello che faceva più ridere era di Katie Herzog, una lesbica molto spiritosa che ha un cane e fa un podcast (quando c’erano i mestieri veri non eravamo costretti a tutti questi dettagli per contestualizzare le persone: che nostalgia del mondo prima delle telecamere nei telefoni e identità derivate).

Faceva così: «Vantaggi di Osama Bin Laden: è poliamoroso (cinque mogli); tiene alla famiglia (tra i venti e i ventisei figli); ha la barba; è alto; è di colore; è perlopiù vegetariano; ha viaggiato; ha molti interessi (poesia, cavalli, calcio, guerra santa). Svantaggi: è un boomer».

L’algoritmo non ha senso del tono, del contesto (che è d’altronde stramorto), del niente. Quindi, quando ho messo una foto di questo tweet nelle storie di Instagram, l’intelligenza poco intelligente della piattaforma mi ha avvisato che l’aveva rimossa perché promuovevo organizzazioni terroristiche, e che per la stessa ragione d’ora in poi non mi sarebbe stato permesso pubblicare contenuti sponsorizzati.

Perché io, si sa, offro sempre ai miei follower codici sconto per gli alberghi nei quali dormo a scrocco. E anche perché è una punizione congrua proibirti di, sulla stessa piazza su cui promuovi organizzazioni terroristiche, vendere barrette dietetiche.

Ora, non è che ci possiamo aspettare che una generazione coi video da due minuti impari la storia in un posto che non sia Netflix, e la cronaca in un posto che non sia il telefono. Lo so anch’io che la teoria di Tina Brown su Diana che si fa fotografare con Dodi per ingelosire il chirurgo pakistano è più interessante, ma ci aspettiamo davvero che un abitante di questo secolo legga le seicento pagine di “The Palace Papers”?

L’algoritmo è scemo, certo, ma è l’unico nutrimento culturale con cui crescono questi derelitti che già hanno vent’anni e sono quindi scemi per ragioni che la neurologia sa spiegare meglio di me; perdipiù, appunto, vivono in un contesto in cui Bin Laden è un compagno che sbaglia e «ass» è una sillaba pericolosa. Vogliamo davvero indignarci, condannarli, parlare di loro come fossero interlocutori alla pari?

Andate avanti voi. Io aspetto solo che scoprano la morte di Diana Spencer da Netflix, l’unico posto in cui guardano filmati oltre i due minuti, l’approfondimento grazie al quale scoprono le cose che non hanno letto sui giornali e che per non opprimerli ci siamo tutti – i genitori, la scuola, gli adulti in generale – astenuti dal raccontare loro.

Aspetto solo che guardino “The Crown”, vedano l’autista ubriaco e i contrattempi vari, e ci vengano a spiegare che l’ha evidentemente fatta ammazzare Elisabetta. Quella suprematista bianca che non voleva un nipotastro color Bin Laden.