Tra la via Emilia e la lounge Un giorno di ordinaria misantropia a sentire i fatti vostri

Subiamo dovunque l’esibizionismo degli sconosciuti. In treno, l’unica carrozza buona, per noi relitti nostalgici del non sentire parole non rivolte a noi, è la carrozza vuota

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«Aveva un atteggiamento che stava sul cazzo a tutti, ma non ti dicevamo niente perché era la ragazza tua». Una volta andavo a origliare le conversazioni altrui al ristorante. Era una delle ragioni per cui preferivo mangiare da sola: dai tavoli vicini veniva materiale narrativo assai più prezioso di quello che mi avrebbe potuto fornire qualsivoglia mio commensale.

Adesso, per sentire la tizia con calata meridionale che racconta la più antica storia delle relazioni umane, quella in cui solo quando ti lasci gli amici ti dicono quanto non sopportassero la persona con cui stavi, non serve che paghi il conto del ristorante.

(Questo è il punto in cui la più diffusa specie di lettori di questo secolo, quelli che non sanno leggere, mi accusa di discriminare i meridionali e accusarli d’essere più pettegoli degli altri, nella stolida convinzione ch’io abbia scritto «calata meridionale» gratuitamente, mica per spiegare come mai il possessivo, nella costruzione della frase della signora, fosse alla fine).

Adesso tutti parlano di tutto con tutti, nel senso che le conversazioni private che si svolgono in pubblico non si svolgono più abbassando la voce per non far sentire i fatti tuoi (o per non disturbare), ma alzandola (per far sapere i fatti tuoi proprio a tutti, o per disturbare massimamente).

La signora che non ha avvisato l’amico dell’insopportabilità della ex finché ella non è diventata ex è sui binari della stazione di Milano, ma il mio treno tarda, e mi sposto nella sala d’attesa Frecciarossa, che è abbastanza piena da non permettermi lo splendido isolamento cui ambisco. Mentre sono al telefono (bisbigliando: sono proprio d’un altro secolo), un signore che evidentemente è dotato di buone maniere gesticola chiedendomi se m’infastidisca se si siede sulla poltrona dalla parte opposta del tavolino. Per carità, si accomodi, saranno tre o quattro metri di distanza, che fastidio può mai darmi.

Poco dopo, mi scuso con l’amico con cui stavo bisbigliando: la voce che senti molto più forte della mia è quella del tizio seduto qualche metro più in là, in vivavoce (o forse in videochiamata: tra i lasciti della pandemia, il fatto che l’umanità si senta menomata a telefonare senza video) con qualcuna di cui sento forti e chiare le frasi. L’amico, persino più signoramiista di me, dice: che barbarie, ormai è così ovunque.

È talmente così ovunque che parla in vivavoce pure uno che un attimo prima temeva di disturbare sedendosi. È talmente così per chiunque che la conversazione urlata di fronte a me è fatta dell’interlocutrice che si lamenta di non sentire bene e del tizio che dice: non posso urlare, sono nella lounge – e lo dice urlando.

Una volta, quando ero giovane e interventista, gli avrei detto: guardi che la sua amica non la sente perché è in vivavoce, se lo toglie sente meglio. Non lo faccio. Vado a prendere il treno. È un treno per Pescara, a bordo del quale c’è un signore straniero che guarda video su TikTok.

Al primo video lo guardo male. Tenerella, che penso di inibire l’esibizionismo contemporaneo con uno sguardo. Al secondo torno interventista (ma non giovane): no, scusi, se vuole guardare dei video si mette le cuffie, perché io non voglio sentirli. Il signore trasecola: le dà fastidio perché sono in una lingua che non capisce? Come si fa a non amare questo tempo in cui se esigi civiltà ti ritrovi razzista.

Non voglio sentire i fatti suoi, rispondo. Ma non sono fatti miei, insiste lui, ignaro di avermi appena illuminato un pezzettino di consapevolezza del mondo: non si tratta di esibizionismo, si tratta di invadenza. È la stessa ragione per cui è inutile prendere la carrozza silenzio: il passeggero della carrozza silenzio pensa, come spesso ci accade per qualsivoglia regola, che riguardi gli altri.

Rumorosi – così come parcheggiatori in seconda fila ed evasori fiscali e mitomani e cornuti e ognuno aggiunga il limite che preferisce – sono sempre gli altri. La carrozza silenzio serve a farli stare zitti e a non disturbare le mie conversazioni. L’unica carrozza buona, per noi relitti nostalgici del non sentire parole non rivolte a noi, è la carrozza vuota.

Quando scrivo qualche riga su Instagram per raccontare del signore che non capiva che fastidio mi dessero i suoi video, commentatori che si percepiscono sagaci mi dicono che sembro Alain Elkann. Ma quello che tentava di porre Elkann era un problema di divario generazionale e culturale, e imporre le proprie conversazioni al mondo è ormai la pratica più generalista che esista, più trasversale del guardare Sanremo. Il signore era più vecchio di me, e io non leggevo Proust (stavo sfogliando Chi, spero che Elkann non lo venga mai a sapere, ma in caso ho pronto il solito «è per lavoro»).

La mattina dopo racconto questo episodio a colazione, nell’albergo dove alloggiano gli invitati a un festival letterario, e raccolgo il più ampio numero di «anch’io, anche a me» nella mia lunga storia di sciorinatrice di aneddoti. Uno scrittore che non a caso vende molto più di me ha una versione di questo diffuso problema che fa più ridere della mia.

Sul suo treno una coppia anziana guardava ad alto volume una partita di calcio, la moglie sospirava «Madonna, ma quando finisce», e lo scrittore si era illuso che anche la moglie fosse infastidita dalla telecronaca e dal rumore. Ma poi la partita è finita, e finalmente moglie e marito sono potuti passare a guardare, sempre senza cuffie e a volume indecente, un’intera puntata di “Uomini e donne”.

Qualche ora dopo sono sul binario pescarese che aspetto il Frecciarossa di ritorno. È domenica mattina, chi mai vuoi che parta, si starà larghi comunque, avevo pensato osservando il biglietto di quarta classe. Sono in anticipo, c’è sul binario una specie di piccola sala d’attesa in cui mi siedo, e un minuto dopo ho di fianco una ragazza in videochiamata e di fronte un’altra che guarda dei filmati su qualche social.

Nessuna delle due fa caso all’altra, nessuna delle due pensa che non sia normale, l’Elkann sono io. Che maledico l’internet a basso costo perché permette al mondo di disturbarmi, ma la benedico perché mi permette, in un minuto dal binario, di comprare un biglietto di prima classe e rifugiarmi nel silenzio di una carrozza executive deserta. Una volta spendevo per origliare i fatti degli altri, adesso investo per fuggirne: sarà questa la senilità?

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