Che la storia del magazine – e del magazine di nicchia – sia strettamente connessa a quella del fashion è cosa risaputa fin dai tempi di Luigi XIV che, intuito il potere della stampa, incentivava la nascita di “riviste” per lanciare l’industria della moda francese, con il celebre Le Mercure Galant a fare da apripista. Capaci dagli albori di creare intorno a ogni capo quella fascinazione che lo rende desiderabile oggetto di uso e consumo, oggi le riviste non sono più quelle di una volta: svestite dalla patina che è valsa alle più celebri di queste l’etichetta di “bibbia della moda”, affrontano crisi e piccole rivoluzioni.
Ma se a soffrire sono soprattutto i mainstream e i grossi gruppi editoriali, costretti a tagli di personale e titoli, diverso è il caso dei magazine indipendenti che, nonostante la crisi di settore, gli aumenti dei costi della stampa e le difficoltà legate alla distribuzione, continuano a proliferare, sconfessando la retorica che vedrebbe l’editoria periodica prossima alla morte. Complice l’indissolubile legame con la moda, di cui ha parlato Giuliana Matarrese, a sostenere le riviste di nicchia sono proprio i brand del lusso che scelgono posizionamenti meno generalisti e preferiscono sposare in toto i progetti editoriali di cui sono ospiti, con editoriali curati su misura che vanno a sostituire le vecchie pubblicità tabellari.
«Alternative to alternative», per usare le parole con cui Olivier Zahm raccontava le motivazioni dietro la nascita del suo “Purple”, tra gli anni Ottanta e Novanta sono stati proprio l’ “i-D” di Terry Jones, il “The Face” di Nick Logan, il “Purple” di Zahm ed Elein Fleiss o il “Self Service” di Ezra Petronio e Suzanne Koller a creare il nuovo immaginario delle riviste di moda. Nomi, questi, da ricordare non solo perché hanno fatto scuola, ma perché hanno dato il via a un genere che porterà nei due decenni a seguire alla nascita dei fashion magazine di nicchia che leggiamo e amiamo ancora oggi. Ma accanto a titoli come “Love”, “Pop” e “Perfect” – per citare la sacra triade di Katie Grand – “A Part”, “AnOther”, “System” o “032c”, se ne accostano altri che della critica al sistema moda hanno fatto un marchio di fabbrica.
“Buffalo zine”, amatissimo per la sua sperimentazione di formati, design e contenuti che lo rende diverso a ogni uscita, ma quasi irriconoscibile agli occhi dei neofiti; “Vestoj” che si definisce come il magazine per gli intellettuali della moda e che alle immagini preferisce le parole, tante e dense, utilizzate per raccontare e approfondire un mondo che non ha a che fare con oggetti e frivolezza, ma con società e identità; o ancora “1 Granary”. E proprio la rivista della Saint Martins di Londra merita qualche parola in più. Nata con l’obiettivo di parlare ai giovani designer per aiutarli a farsi largo nel mondo ultra-competitivo della moda, dopo due anni di silenzio, “1 Granary” è tornato sugli scaffali delle librerie con un numero “scandaloso”, che raccoglie interviste e testimonianze anonime di dipendenti senior del settore del lusso. Lo scopo è quello di mettere in luce, per la prima volta in maniera così capillare, i problemi strutturali nel cuore del settore della moda: conflitto intergenerazionale, ageism, gestione creativa, leadership, trasparenza salariale, dinamiche di potere e uguaglianza di genere.
Ma nel mondo delle riviste di nicchia, non sono solo i fashion magazine a parlarci di moda. Prova ne sono tre riviste italiane che proprio questo autunno hanno lanciato delle edizioni e dei supplementi speciali a questa dedicati. Artribune ha aperto le porte al fashion system con un inserto che due volte l’anno accompagnerà storici e nuovi lettori della nota rivista d’arte tra abiti e profumi. Alessia Caliendo, curatrice del Focus Artribune Moda e Fragranze, ci racconta il progetto così: «Il nuovo Focus di Artribune si pone l’obiettivo di far riscoprire l’identità culturale dell’industria della moda italiana ripercorrendo la penisola da nord a sud. Attraverso un mosaico di immagini uniche prodotte da quaranta talenti, riconducibili a un alfabeto visivo semplice e deduttivo, l’itinerario viaggia per tutto il paese nello spazio e nel tempo, narrando l’arte della moda tra passato e presente, e le capacità creative e tecniche che costituiscono lo studio di una fragranza».
A fargli da eco arriva “Archivio”, la rivista di Promemoria Group, che inaugura un nuovo ciclo con un design completamente rinnovato e la direzione editoriale di Daniela Hamaui, ex direttrice di Vanity Fair. Non stupisce, dunque, che il primo numero, introdotto da una cover a firma Francesco Vezzoli, sia proprio dedicato agli archivi sconfinati, incombenti, attuali e mai esplorati in modo sistematico della moda. «Nelle presentazioni delle ultime collezioni di moda non c’è stato stilista o creativo che non abbia fatto riferimento all’heritage del brand – ci racconta Daniela Hamaui – immergersi negli archivi per capire il passato e immaginare il futuro non è più solo un’opzione, è diventato necessario. Per noi è una soddisfazione vedere quanto gli archivi, che sono alla base della nascita della nostra rivista, siano ormai un luogo dove sempre più persone vogliono immergersi. Così per la prima volta con il Guest Editor-in-chief Stefano Tonchi e Marco Pecorari, abbiamo realizzato un volume da collezione, interamente dedicato al fashion che racconta non solo le diverse tipologie di archivi, da quelli pubblici, a quelli privati, a quelli dei brand, ma svela un mondo sconosciuto fatto di documenti, immagini, vestiti e accessori custoditi con estrema cura e attenzione. Insieme ad “Accurat” abbiamo anche pubblicato una mappa volutamente incompleta (e da completare) degli archivi italiani di moda divisi per regioni e categorie. Gli archivi sono vivi, in perenne evoluzione, raccontano un pezzo di storia e soprattutto sono un luogo dove perdersi e ritrovarsi».
E poi c’è “Brillo Magazine”, rivista di illustrazione, che nella sua ultima edizione ci ricorda quanto moda e illustrazione, in fatto di riviste, siano legate da sempre: dai figurini di Settecento e Ottocento all’edizione speciale di Vogue del gennaio 2020 che, sotto la direzione di Emanuele Farneti, alle fotografia avevo sostituito per l’appunto le illustrazioni. Patrizia de Nardi, founder della rivista, questo legame ce lo spiega così: «quello della moda è un mondo così sfaccettato e affascinante, da cui la nostra realtà si lascia contaminare quotidianamente grazie alle numerose collaborazioni con brand e aziende di settore, un tema a noi caro che in qualche modo vogliamo omaggiare con la nostra personalissima “lettera d’amore”. Dalla copertina fino all’ultima pagina, la moda ci accompagnerà con eleganza in questo percorso. Partendo da un amarcord di fatti e costumi che hanno scritto la sua storia per poi spostare l’attenzione sul ruolo che l’illustrazione di moda ha ricoperto nel tempo e che ricopre oggi».
Insomma, se la carta è viva, un po’ del merito lo deve anche alla moda.