Pittura istintivaIl respiro verticale delle cose secondo Federica Perazzoli e Daniele Innamorato

Per loro, abituati a lavorare nello stesso studio, dipingere è un esercizio d’apprensione di sensibilità prima che di significato. La doppia mostra personale – Innamorato è uno dei protagonisti del nuovo numero di Linkiesta Etc, in edicola dal 20 ottobre, con un servizio fotografico tra moda e surrealismo – è aperta fino al 22 dicembre alla galleria Viasaterna (Milano)

Federica Perazzoli, In my inner self, mixed media on canvas, cm 200x145, 2023, © Federica Perazzoli courtesy Viasaterna Gallery

Sono più di vent’anni che Federica Perazzoli e Daniele Innamorato condividono lo studio. Vent’anni d’amicizia e vent’anni di collaborazioni (con Kings, il collettivo punkabbestia noto per i claims ruvidi e parresiasti come: Fuck Art Collectors). Vent’anni di vicinanza quindi, e vent’anni sono molti, e in vent’anni è indubbio che questi due artisti, che sono prima di tutto due pittori, si siano suggestionati vicendevolmente, laddove la suggestione è una mescola di confronto, suggerimenti, cambi repentini di prospettive e in questo caso comprensione dell’altro – il che significa assumere per vero, credere, a quel che l’altro dice e fa.

La storia artistica dei due è lunga, e questa non è la sede per parlarne nel dettaglio, ma la mostra bi-personale a Viasaterna offre quantomeno la possibilità di supporre, di mettere per iscritto, due posture sensibili ed espressive che si riversano da tutto questo tempo nelle loro opere. Se da una parte Federica cerca i paesaggi e i ricordi, cerca sempre di fermare qualche cosa, e dall’altra Daniele ha quell’inclinazione pulsionale apparentemente cieca e dissennata, entrambi condividono – come ogni buon atleta della pittura – l’esercizio costante e ossessivo mosso dall’impellenza di uno sfogo, dalla necessità fulminea di mettere a terra un’espressione. Queste pitture, per inclinazione sensibile dei due, sono quindi innanzitutto pitture umorali, veloci e pulsionali e poco inclini al pensiero figurale quanto piuttosto al lavorio delle sensazioni che sottendono le pulsioni stesse.

Untitled © Daniele Innamorato, courtesy Viasaterna Gallery

Per cominciare, si potrebbe dire che Federica ricerca i luoghi in cui una o talaltra sensazione s’acquattano per bene. Federica inventa paesaggi, e inventare un paesaggio significa inventare anche un modo per guardarlo, una postura sentimentale per coglierlo. D’altronde non ci può essere paesaggio senza figure poiché non esiste paesaggio senza osservatori, ma il punto è un altro: è da dove e come si guarda a un paesaggio, che esso sia verosimile o meno. A riguardo, i paesaggi immaginati da Federica sono colmi di figure, quasi tutte femminili e quasi tutte forse lei, in pressoché ogni luogo: sotto al bozzetto di un albero, nel bel mezzo dell’abbozzo di un cielo turbinoso o abbarbicata su una scogliera cotonata, che si sdraia in un blu e che s’acciambella in un rosso granata, che precipita nel turchese o s’erge in uno zafferano.

Pare che tutto nel paesaggio-Perazzoli sia percorribile e presidiabile, poiché tutto pare della stessa consistenza e con la stessa vocazione: paesaggi morbidi come bambagia in tramonti lisergici, dove tutto si mescola al cospetto delle figure che li osservano e ne percorrono le linee di costruzione – uniche a non farsi trascinare nel ribollio di un colore tanto lieve da essere nubiforme. Tutto concorre a suscitare l’impressione di un luogo che sia niente più che un “qualcosa”. Poco nitido, poco fermo.

In my inner self © Federica Perazzoli, courtesy Viasaterna Gallery

Come un momento sospeso o un ricordo falsato. Ogni forma è che abbia un nome è al limite del riconoscibile, e se si riesce a pronunciare un nome o un attributo è per semplice somiglianza. Quelle che sono figure di scogliere, avvallamenti, cascate o arbusti sono bozzetti di un qualcosa sempre sull’orlo di dissolversi, di disfarsi in ogni dove. C’è sempre l’eventualità che tutto possa perdersi in tutto, così che il sentimento di rifugio che domina questi paesaggi funzioni di concerto con la sensazione della sparpagliatezza, della perdita costante. Ci sono nuvole che zampillano in azzurri brillanti, rocce che si sfilacciano in volumi vaporosi, valli che si mangiano i cieli.

C’è allora chi si sforza a trattenere, chi immortala per avere degli album, chi scrive per non dimenticare. E poi c’è chi s’affida tanto che tramuta il timore della perdita alla lietezza della scomparsa, a quell’educazione sentimentale che cerca le sensazioni lievi, che stanno sulla punta dei respiri, in un luogo di mezzo tra il trattenimento e l’abbandono che sembra un po’ essere la sensazione portante dei dipinti di Federica. Insomma, separare senza distinguere: questo sembra lo sforzo che si compie con delicatezza nelle pitture di Perazzoli, e che richiama allora il lavorio della memoria e dei ricordi e la loro consustanziale incertezza. Per cui è sempre possibile giustapporre le immagini agli stati d’animo e viceversa, e per cui è necessario farlo – a costo di inventare le une e gli altri – un attimo prima che le une e gli altri tornino al perenne brusio indistinto delle cose.

Se Federica trova in questo sforzo del trattenimento e nella lietezza dell’abbandono una certa velocità di rotta, di una pittura che cerca la sensazione lieve e quindi con una certa postura contemplativa, Daniele si dispone invece alla tela seguendo soltanto quei procedimenti di natura istintuale. In altre parole, quel che si dice “di pancia” qui prende il sopravvento, scansando le immagini, le figure e le strutture. Si capisce che per Innamorato sono tutti atti premeditati, poco propizi alla scoperta. D’altronde il solo fatto di scegliere una qualunque di queste indica di per sé che si sappia già troppo.

Nessuno ha la facoltà di scegliere come le cose saranno. Benché sia inevitabile che occorra almeno una qualunque di queste per approcciarsi inizialmente a una pratica espressiva – sia questa pittura, musica o scrittura –, non è mai dato che tali debbano rimanere. Quel importa per Daniele è altro: è la pulsione che ha decretato le immagini e le figure, che ha evocato l’una o talaltra figura, e allora inseguirla.

Untitled © Daniele Innamorato, courtesy Viasaterna Gallery

Ogni buon artista è innanzitutto un buon cacciatore, e come ogni buon cacciatore traccia le procedure incerte delle sensazioni, aggiustandosi via via secondo un orizzonte di pancia. La pancia è importante, e tutto qui è pancia: organo metonimico nel quale ricorre l’animalesco per eccellenza, l’animale-bambino che è tutti gli animali insieme, legittimato dal rifiuto dell’adulto saper-già a inventare e fare tutto quello che vuole. Contro chi dice che una pittura, una scultura o un’immagine, insomma un fatto estetico, debba per forza di cose “avere senso”, qui si vede piuttosto che quel che conta non è necessariamente il senso in sé, o quel che si dice senso canonicamente.

C’è il senso del significato e il senso della sensazione, e il significato è allora piuttosto l’astrazione di una sensazione. Così che dipingere è prima di tutto un esercizio atletico, d’apprensione di sensibilità prima che di significato – questione che Innamorato ama esprimere così: «Il mio lavoro non significa un cazzo». Una proposizione questa che possono dar per vera (letteralmente) soltanto quelli troppo abituati alla premeditazione, a dar per certo che una composizione o una figura debba “avere del senso” – quando la domanda da porsi sarebbe piuttosto dov’è che si colloca, dov’è che guarda questo “senso” –, fraintendendo così il senso per forme e figure, per quel che si riconosce e allora già da sempre si sa. Viste da una prospettiva che esula la produzione di contenuti – fin troppo considerati nell’arte contemporanea –, pitture simili non sono poi così differenti dalle pitture tutte: sono esercizi espressivi, dediti a intensificare con intenzione una sensazione (e allora il bagaglio di “cose” che è il mondo), a esibirla e ad essere visti.

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