Luci e ombreLa nube dei sussidi fossili che oscura l’ottimismo climatico

Stiamo aggiungendo “crescita verde” a un sistema ancorato alle fonti energetiche sporche, oltre che orientato all’iperproduzione. In un mondo in cui i finanziamenti dei governi a gas, petrolio e carbone hanno raggiunto un nuovo record nel 2022, guardare con fiducia al futuro è uno sforzo faticoso ma necessario

AP Photo/LaPresse (Ph. David Goldman)

Agosto e settembre sono mesi solitamente ricchi di report sui temi climatici e ambientali, fondamentali per fornire a governi, società civile e aziende le informazioni necessarie per approcciarsi con slancio alle conferenze delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici (Cop28 si terrà da giovedì 30 novembre a martedì 12 dicembre). Nelle ultime settimane, in particolare, sono stati pubblicati due documenti tanto autorevoli quanto emblematici delle complessità della sfida climatica. 

Il primo – il più recente – è dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), il secondo del Fondo monetario internazionale (Imf). L’organizzazione intergovernativa fondata dall’Ocse, come vedremo più avanti, predica ottimismo. L’Imf, invece, ci porta tutti nel mondo reale: nel 2022, i sussidi versati dai governi (quindi dai contribuenti) per i combustibili fossili hanno raggiunto un nuovo record, pari a settemila miliardi di dollari su scala globale. 

Secondo il Fondo monetario internazionale, i sostegni governativi a gas, petrolio e carbone corrispondono al 7,1 per cento del Pil mondiale. Spendiamo annualmente più soldi per l’energia “sporca” rispetto all’istruzione (4,3 per cento), e non siamo tanto lontani dalle risorse destinate alla sanità (10,9 per cento). In più, stando a una recente indagine del Guardian, gli istituti di credito europei avrebbero aiutato le aziende fossili a guadagnare più di un trilione di euro dai mercati obbligazionari mondiali. 

Il sunto è che le rinnovabili stanno crescendo in modo incoraggiante, ma le emissioni continuano ad aumentare (+0,9 per cento nel 2022 rispetto al 2021) e il nostro sistema produttivo è ancorato a combustibili fossili come gas, carbone e petrolio. La coperta sembra sempre corta: senza una strategia globale per abbandonare le fonti energetiche “sporche” – associata a un totale ripensamento del nostro approccio ai consumi – è difficile essere ottimisti.

Non la pensa così Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia internazionale dell’energia, che in un’intervista al Guardian ha detto che il mondo potrebbe rispettare i limiti dell’accordo di Parigi (mantenere l’innalzamento della temperatura sotto i due gradi e, se possibile, sotto gli 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali) grazie alla crescita «sconvolgente» delle energie rinnovabili. 

Birol si riferiva all’ultimo report della sua agenzia, che martedì 26 settembre ha pubblicato l’aggiornamento della “Net zero roadmap: a global pathway to keep the 1.5 °C goal in reach”. Dal documento sono emersi dati incoraggianti ed è stata confermata la solita (meravigliosamente utopica?) ricetta: per farcela servono senso d’urgenza, investimenti mirati e più consistenti, meno burocrazia e una «separazione tra clima e geopolitica». 

Il succo dello studio è che il percorso per centrare il target annunciato nel 2015 si è «ristretto», ma la crescita delle rinnovabili, l’efficienza energetica degli edifici (dovuta anche alle pompe di calore) e la riconversione elettrica (anche nel settore automotive) stanno mantenendo la partita aperta. Questi fattori, sostiene l’Iea, sono in grado di soddisfare «oltre l’ottanta per cento delle riduzioni delle emissioni necessarie entro il 2030». Nello scenario Nze (Net-zero emissions by 2050 scenario), l’incremento dell’energia pulita sarà il fattore chiave per comprimere la domanda di combustibili fossili del venticinque per cento entro la fine del decennio.

Le richieste dell’Agenzia internazionale dell’energia sono tre: triplicare la quota di rinnovabili al 2030 (lo stesso proposito annunciato al termine del G20 in India); ridurre del settantacinque per cento le emissioni di metano del settore energetico entro lo stesso anno; anticipare gli obiettivi net zero dei Paesi più sviluppati e industrializzati. Nel mirino, in questo caso, non ci sono Stati virtuosi come Austria (2040) o Germania (2045), ma Cina (2060) e India (2070). 

«Nonostante la portata delle sfide, mi sento più ottimista rispetto a due anni fa. Le installazioni solari fotovoltaiche e le vendite di veicoli elettrici sono perfettamente in linea per raggiungere il net zero e, quindi, per rimanere entro la soglia degli 1,5 gradi di riscaldamento globale. Basti pensare che, negli ultimi due anni, gli investimenti nell’energia pulita hanno registrato un aumento del quaranta per cento», ha detto Fatih Birol. 

Qui è necessaria una precisazione: “net zero” (o “zero emissioni nette”, “neutralità carbonica”) non significa annullare del tutto la generazione di gas a effetto serra (Ghg), ma raggiungere un equilibrio tra le emissioni e l’assorbimento di carbonio. Questo, citando l’articolo 4 dell’accordo di Parigi, deve concretizzarsi «su una base di equità e nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi tesi a eliminare la povertà». 

L’assorbimento delle emissioni di gas serra può sì avvenire grazie alla piantumazione di alberi e pratiche agricole virtuose, ma anche attraverso l’acquisto di crediti di carbonio o i sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Ma se le emissioni non diminuiscono drasticamente, e in modo uniforme, restare nel grado e mezzo di riscaldamento è impossibile.

In ogni caso, l’ottimismo di Birol va ad aggiungersi a quello di Jim Skea, nuovo capo dell’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc), che ha però una posizione diversa sulla rilevanza del target degli 1,5 gradi. Secondo lui, il mondo oltrepasserà presto questa soglia così pericolosa, ma non è un dramma: «Non dobbiamo disperare e cadere in uno stato di shock. Il mondo non finirà se si riscalderà più di 1,5 gradi».  

Torna, a questo punto, l’annosa questione: ha ancora senso parlare dei +1,5 gradi? Secondo la comunità scientifica internazionale, si tratta dell’unica speranza per mantenere il mondo simile a come lo conosciamo oggi. Ma la realtà sta cambiando rapidamente sotto i nostri occhi, ed è chiaro che il “Pianeta del futuro” sarà diverso. Per questo, oltre agli sforzi di mitigazione, non bisogna mai dimenticare l’importanza dell’adattamento. 

Luglio 2023 si è rivelato il mese più caldo della storia. Giugno e agosto sono stati rispettivamente i più roventi da quando l’uomo dispone degli strumenti per registrare le temperature. Siamo quasi a ottobre e in diverse zone d’Italia si toccheranno (e supereranno) i trenta gradi. La giornalista ambientale Katharine Sanderson, in un recente articolo pubblicato sul sito di Nature, ha scritto che la linea dei +1,5 gradi potrebbe spezzarsi quest’anno. La fonte è l’Ong specializzata Berkeley earth, secondo cui le possibilità che accada nel 2023 ammonterebbero al cinquantacinque per cento. 

Insomma, prima o poi succederà. Che sia quest’anno, nel 2025 o nel 2030. Non c’è da sorprendersi, perché a livello locale o continentale il muro si è già rotto da tempo: nel 2022, stando a un report dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) e di Copernicus, la temperatura media in Europa ha superato di 2,3 gradi i livelli pre-industriali (1850-1900). 

Cosa significa tutto ciò? Le energie rinnovabili, la decarbonizzazione dei trasporti e l’efficienza energetica degli edifici devono essere inserite in un piano per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili. Deve essere una strategia uniforme, equa e fondata su una inevitabile riduzione dei consumi. 

Nello scenario attuale, stiamo aggiungendo “crescita verde” a un sistema dipendente dai combustibili fossili e orientato all’iperproduzione. È la strada giusta per un timido miglioramento, ma non per dare una spallata all’emergenza climatica. Prepariamoci, allora, a un mondo sempre più distante da quello che conosciamo, non solo per via della presenza di eventi meteorologici più violenti e frequenti. Probabilmente non soddisferemo le richieste dell’accordo di Parigi, ma il ritmo del peggioramento è ancora sotto il nostro controllo.