Da Milano a Canazei, in Val di Fassa, e poi su fino a Punta Penia, la vetta più alta della Marmolada e di tutte le Dolomiti, attraversando luoghi e paesaggi d’alta quota il cui volto è già stato sfigurato, o lo sarà presto, dalla crisi climatica. È l’escursione che lo scrittore bolognese Enrico Brizzi ha compiuto quest’estate, mentre in Italia si superava il record europeo dello zero termico e le continue ondate di calore alzavano eccezionalmente le temperature su tutti i ghiacciai alpini. L’esperienza è raccontata in “L’ultimo cristallo”, serie podcast di Chora Media in collaborazione con il Gruppo Hera in uscita sulle piattaforme audio dal 20 ottobre, con un nuovo episodio ogni venerdì fino al 17 novembre.
Brizzi è la voce principale di questo audio-reportage in presa diretta, ma non l’unica. Ad accompagnarlo nel viaggio, in quello reale e in quello della conoscenza, ci sono alcune persone che conoscono e vivono la montagna quotidianamente e anche diversi esperti di clima e ambiente, tra cui Serena Giacomin, fisica del clima, meteorologa e presidente di Italian climate network, il glaciologo Anselmo Cagnati e Chiara Montanari, ex capo spedizione alla base Concordia, centro di ricerca scientifica in Antartide. Presenze fondamentali per comprendere quanto profondamente e diffusamente il cambiamento climatico stia impattando le «terre alte», ma anche per collegare la realtà delle Dolomiti a ciò che accade in pianura e nel resto del mondo.
Dalla tempesta Vaia al crollo sulla Marmolada
La devastazione degli eventi climatici estremi e delle valanghe, la siccità, i ghiacciai che si ritirano e perdono stabilità: «La salita a Punta Penia permette di vedere in un’unica escursione tutti gli effetti che il cambiamento climatico può avere sulla montagna, dai mille ai 3300 metri», racconta Brizzi. «Emotivamente è un’esperienza forte. Ti senti un privilegiato, perché la stagione per salire in sicurezza è sempre più stretta e proprio tu hai la fortuna di essere spettatore di tutta quella meraviglia. Ma senti anche che è una meraviglia estremamente fragile: fa male al cuore pensare che probabilmente nessuna delle mie quattro figlie alla mia età potrà vedere questo stesso scenario».
Nel punto di partenza dell’escursione, Canazei, sono ancora visibili i segni lasciati da Vaia, la tempesta che nel 2018 ha colpito con inedita violenza il Triveneto abbattendo quarantadue milioni di alberi. È stato uno dei peggiori episodi di cambiamento climatico mai registrati nel nostro Paese e, sebbene venga chiamato impropriamente tempesta, ha spazzato il nord-est italiano con venti da uragano che di solito si generano soltanto nelle zone tropicali. «La mia base abituale per le Dolomiti è Asiago, dove abbiamo una casa di famiglia. Anche lì Vaia è stata devastante: i mezzi pesanti sono ancora al lavoro nei boschi per trascinare via i tronchi abbattuti e lavorarli in maniera virtuosa. Ho ben presente cosa significa conoscere una montagna da quando sei bambino e renderti conto che, nello spazio di un boato, cambia profilo per sempre».
Brizzi e i suoi compagni di avventura passano poi dal lago di Fedaia, che si trova proprio ai piedi della Marmolada, la «Regina delle Dolomiti». I laghi sono in realtà due: un piccolo specchio d’acqua di origine naturale, nato in seguito a uno sbarramento morenico, e uno più grande di origine artificiale, che si è formato dopo la costruzione della diga negli anni Cinquanta. È uno scenario che permette di fotografare un altro aspetto cruciale dello stato di salute delle montagne: la disponibilità di risorse idriche. Nel lago di Fedaia il livello dell’acqua è calato drasticamente durante la siccità del 2022, con effetti sull’ambiente alpino e anche sulle attività in pianura: l’acqua delle montagne viene infatti usata a bassa quota per la produzione idroelettrica e l’agricoltura.
Per raggiungere Capanna Punta Penia – il rifugio più alto delle Dolomiti, gestito da Carlo Budel – si devono infine attraversare i ghiacci che un tempo avremmo chiamato perenni e in cui invece nell’estate 2023 il termometro misurava 14,3 °C, la temperatura più alta mai registrata negli ultimi dieci anni. Un altro specchio degli effetti che la crisi climatica produce su tutte le montagne, ma che qui da poco più di un anno hanno un peso diverso: il pensiero inevitabilmente corre al 3 luglio 2022, quando una grossa porzione di ghiacciaio si è staccata provocando la morte di undici persone.
Secondo il rapporto di quest’anno della World meteorological organization, i ghiacciai in Europa dal 1997 al 2022 hanno perso un volume di circa ottocentottanta chilometri cubi di ghiaccio: le Alpi sono state le più colpite e solo nel 2022 hanno perso il sei per cento del loro volume. «La linea dei ghiacciai si ritirerà plausibilmente in pochi anni fin sopra i tremila metri. Di un ghiacciaio come la Marmolada, quindi, non resterà quasi niente», prosegue Brizzi. «Da quelle parti si è combattuto pesantemente durante la Grande guerra: gli austro-ungarici hanno vissuto asserragliati a migliaia dentro il ghiacciaio, scavando gallerie e costruendo una vera e propria città di ghiaccio. È impressionante, oggi che quel ghiaccio non c’è più, riuscire a vedere i punti in cui le gallerie erano collegate ai tunnel nella roccia. Le aperture artificiali sulla parete adesso sono ottanta metri più in alto rispetto al livello del ghiacciaio attuale. Ecco, questa è la misura esatta di quanto si è assottigliato il ghiacciaio dal 1918 a oggi».
C’è anche un impatto socioeconomico
Tra le vette l’impatto ambientale della crisi climatica salta più facilmente all’occhio: un albero sradicato, un ghiacciaio spaccato, un lago quasi asciutto. Forse meno visibile, ma non meno importante, è l’impatto socioeconomico. «Abbiamo parlato con una coppia di giovani, Sara e Fabio, che hanno iniziato a coltivare cereali ed erbe tipici delle loro zone montane, ma che erano stati abbandonati perché fuori dalla logica delle coltivazioni intensive su larga scala». Reduci dall’esperienza di Vaia, i due hanno dovuto adattare la loro pratica agricola in previsione di nuovi eventi meteorologici estremi, che in futuro saranno probabilmente più frequenti.
È significativo anche il fatto che nell’ascesa a Punta Penia si scorge ciò che resta del rifugio Pian de Fiacconi, distrutto a dicembre 2020 da una valanga – anche questo un fenomeno che può essere collegato al cambiamento del clima. Anche il rifugio Ghiacciaio, a 2655 metri, è stato chiuso perché le alte temperature aumentano i rischi per la sicurezza. Una situazione che stride con il proposito ancora diffuso di continuare a sfruttare la montagna a ogni costo, spesso contro ogni evidenza e logica.
Guido Trevisan, storico gestore del rifugio Pian dei Fiacconi (nel podcast c’è anche la sua voce), in una lettera aperta di gennaio 2021, quindi poco dopo la valanga, aveva scritto di provare rabbia nel vedere «come la macchina potente dell’imprenditoria non si fermi e neppure rallenti di fronte ad un evento catastrofico», ma anzi «rilanci più di prima la costruzione di un nuovo impianto di risalita più grande e con più cemento armato per proteggerlo meglio da valanghe più grandi (…) Penso che l’unica via sia quella di adattare le nostre abitudini all’ambiente in cui viviamo anziché cercare di adattare la natura a nostro piacimento».
Una frase, quest’ultima, che calza alla perfezione anche in riferimento al fatto che le elevate temperature in quota aumentano i pericoli per gli alpinisti e dovrebbero spingere verso un cambio di approccio all’alta montagna, o almeno verso una maggiore consapevolezza dei rischi. «Nell’Ottocento, dopo alcune tragedie sul Cervino, la Svizzera proibì di salire in montagna», racconta Brizzi. «Anche la Regina Vittoria, in Inghilterra, pensò di mettere l’alpinismo fuorilegge perché al ritorno dalla prima ascensione sul Cervino alcuni inglesi, tra cui il figlio di un’importante famiglia nobile, caddero in un crepaccio.
I divieti però non hanno mai funzionato, e infatti sono durati pochissimo: l’alpinismo è un esercizio di libertà. Ma il rischio zero non esiste, mai. Il punto è capire come far quadrare la libertà delle persone di andare in montagna con il fatto oggettivo che i pericoli aumentano sempre di più in determinati scenari. Nel podcast è l’alpinista Anna Torretta ad averci spiegato, dal punto di vista tecnico-pratico, in che senso il ghiaccio, il permafrost e la neve stanno cambiando».
La necessità di educare le persone ad approcciare l’alta montagna con minore leggerezza emerge anche quando Brizzi si confronta con altre guide alpine, molte delle quali sono anche soccorritori. «Un evento come il crollo della Marmolada è imprevedibile: ce l’hanno confermato le voci della scienza. Ma ci sono molti altri incidenti meno clamorosi, perché coinvolgono meno persone o perché hanno un lieto fine, che sono assolutamente evitabili. Mentre scendevamo con una certa rapidità da Punta Penia, perché il tempo stava cambiando, abbiamo incontrato persone che abbastanza insensatamente stavano iniziando a salire in quel momento verso le nuvole nere, alcune in pantaloncini corti.
Già esiste la possibilità di un incidente senza aver fatto niente di male, ma ai soccorritori dovrebbero essere risparmiate le occasioni in cui andare a levare dai guai persone che, in barba a ogni buon senso e a ogni consiglio, vanno in alta montagna come se fossero nel campetto da basket dietro a casa».
Contro il negazionismo
«Abbiamo visto che le montagne stanno cambiando in maniera molto evidente e a volte drammatica, ma è esattamente lo stesso fenomeno per cui le campagne di Faenza vengono alluvionate in pianura o per cui sul Lario le frane sono diventate più frequenti», conclude Brizzi. «Il mondo è uno solo, evidentemente, e le scelte che dobbiamo fare non sono mirate alla montagna, alla mezza montagna, alla collina o alla pianura: sono scelte che vanno fatte in maniera collettiva e globale. Se almeno una persona che ascolta questo podcast e tende a essere portata verso il negazionismo del cambiamento climatico ci ripensa, credo che avremmo raggiunto un obiettivo».
Chi inquina i pozzi del dibattito, in questi casi, in genere ricorda che ci sono sempre stati dei cicli climatici, cioè periodi in cui ha fatto meno freddo rispetto ai secoli precedenti e successivi. Immancabile il riferimento ad Annibale che con i suoi elefanti è riuscito a passare le Alpi, che dunque non erano presumibilmente coperte da ingenti quantità di neve. «È vero: il clima ha una ciclicità che non dipende da noi», prosegue Brizzi. «Il punto è capire quanto noi esseri umani stiamo aggravando i periodi di questa ciclicità. Dire che il clima è sempre cambiato e che l’uomo non c’entra niente è estremamente superficiale, perché ci libera da ogni responsabilità. Le nostre responsabilità invece ci sono e iniziano dalle nostre scelte quotidiane. Non mi voglio porre come maestro, anzi. In questo senso credo proprio che la generazione delle mie figlie sarà più addestrata di noi. Non sarà un caso se noi scendevamo in piazza a sedici anni per la guerra in Iraq o in Jugoslavia, anche con delle divisioni politiche interne forti. Oggi invece la maggior parte dei ragazzi non ha un’appartenenza politica così marcata, ma le occasioni in cui sono scesi in piazza tutti insieme erano per i Fridays for future o per sottolineare che non abbiamo “un pianeta B”».