Qui, ottant’anni dopoLa chiarezza morale del vice cancelliere tedesco e il disonore della politica italiana

Robert Habeck ha detto tutte le cose giuste sul dovere di considerare la sicurezza di Israele come la nostra sicurezza e su ciò che sta accadendo agli ebrei in Europa. Ma la nostra classe dirigente pare non l’abbia sentito

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Non c’è stato un politico italiano, nemmeno uno, non c’è stato un esponente parlamentare o governativo della Repubblica democratica fondata sull’antifascismo, nemmeno uno, che abbia sentito l’urgenza di pronunciare le parole semplici e gravi del vice cancelliere tedesco, Robert Habeck. Non le parole circa il dovere di considerare la sicurezza di Israele come la nostra sicurezza, non le parole circa il dovere di considerare il diritto di esistere di Israele come il nostro diritto di esistere. Figurarsi, sarebbe stato troppo anche per il meno inibito dei nostri politici “antifascisti”.

No, dunque, non quelle parole del vice cancelliere, quelle sul conflitto e la tragedia laggiù, ma queste sue altre, riferite a quel che succede qui, nell’Europa che fu della Shoah: «Qui, in Germania, ottant’anni dopo». Parlava delle manifestazioni in cui si inneggia alla “resistenza” fatta sgozzando i bambini ebrei: quelle manifestazioni «qui, in Germania, ottant’anni dopo». Parlava delle stelle disegnate sulle case degli ebrei: quei segni «qui, in Germania, ottant’anni dopo». Parlava delle sinagoghe assaltate, dei memoriali transennati per evitarne la devastazione, degli ebrei costretti a nascondersi: «Qui, in Germania, ottant’anni dopo».

C’è una ragione storica, civile, morale, culturale e anche antropologica se nessun politico italiano, ma nessuno, sulle manifestazioni “Fuori i sionisti da Roma”, sulle svastiche sull’uscio della famiglia ebrea, sulla tracimazione plateale e incontenibile della fogna antisemita, sulla temperie da Kristallnacht che solo uno sprovveduto o un volgare mascalzone può non vedere, c’è una causa e c’è un’intimità tutta italiana se nessuno dice, forte e grave come quel politico tedesco: «Qui, in Italia, ottant’anni dopo».

Perché nella rappresentazione “antifascista” che governa da ottant’anni questo stramaledetto Paese, questo immorale Paese, questo incivile Paese, questo colpevole Paese, questo fallito Paese, questo Paese indebitato con la verità e inadempiente al proprio obbligo di verità, questo Paese marcio non in ciò che è disposto a condannare, ma in ciò per cui si pretende migliore, in ciò per cui “se la crede”, ciò che successe ottant’anni fa era una inopinata parentesi, il frutto inaspettato dell’inoculazione di un elemento patogeno in un corpo altrimenti perfettamente sano.

Perché mai l’Italia repubblicana e antifascista, mai, ha assunto su sé stessa la colpa di ciò che successe qui ottant’anni fa: mai. E sempre, semmai, ha imputato le leggi razziali, l’antisemitismo, i campi di concentramento che avevamo anche qui, alla violenza minoritaria e precaria di qualche manipolo che aveva preso il potere chissà perché, alla provvisoria capacità di sopraffazione di pochi, invisi a tanti, e anzi a tutti: ma invisi a tutti dal 26 aprile in poi, perché il 25 era presto, vedi mai che non fosse proprio sicuro sicuro che la testa presa a calci e riempita di sputi in Piazza Loreto fosse proprio quella del cadavere di Benito Mussolini.

Quel politico tedesco, dimostrando orrore e intransigenza non solo perché si trattava di violenza ordinariamente «inaccettabile», secondo l’eloquio del progressista medio, ma tanto più perché avveniva «qui, in Germania, ottant’anni dopo», ha onorato sé stesso. Ha onorato la Germania. Ha dato forza alla Germania. Ha dato speranza alla Germania.

La mancanza di parole analoghe in Italia disonora quelli che non le hanno pronunciate. Disonora l’Italia. Lascia senza speranza l’Italia.

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