Frequentando per lavoro tanti professionisti del mondo della ristorazione, ho imparato nel tempo (e dopo parecchi insulti!) quando è meglio non disturbarli, e quando invece è un buon momento per chiedere loro pareri e consigli.
Tenere un fil rouge con chi lavora nel settore è parte integrante del lavoro di chi lo comunica, e non sempre si parla di cibo, ma spesso si parla di notizie, di trend, di dinamiche, si fa un po’ di gossip, e questo dialogo costante permette di essere sempre sul pezzo e di avere il polso della situazione.
Le conversazioni di lavoro si concentrano in tarda mattinata: mai disturbare gli chef la mattina presto, meno che mai rompere al telefono nell’orario di pranzo: lavorano. Il pomeriggio è un’alternativa, ma spesso si ha la concorrenza spietata dei rappresentanti, delle spese, dei conti.
Il gossip più divertente si fa con i maître durante il servizio: la potenza di WhatsApp sul computer delle prenotazioni mi ha fatto ridere tantissimo, perché, seduta al ristorante o anche dal divano di casa, riusciamo a commentare quello che succede in diretta, e la serata è subito più frizzante.
Ma i dialoghi più costruttivi si fanno dopo il servizio serale, dopo mezzanotte, quando loro hanno terminato il lavoro ma hanno ancora l’adrenalina in circolo, e hanno voglia e tempo di chiacchierare per scaricare la tensione. È in quei momenti che si fa filosofia.
E in una delle ultime conversazioni notturne, è venuto fuori un tema intenso e determinante per capire questo lavoro. Parlavamo di fatica.
«Se può farti piacere, mi chiedo ogni sacrosanto giorno se ciò che faccio ha un senso, e trovo risposte inutili che aiutano a ripartire come fosse l’inizio di qualcosa, ma è difficilissimo, ci vuole un sacco di fantasia», scriveva il patron di lungo corso di un ristorante di provincia, che macina coperti e sorrisi, stappa bottiglie e prepara piatti di tradizione con competenza e professionalità.
La mia risposta era già scritta: «Tu fai un lavoro bellissimo: fai felici le persone!!!».
La conseguenza non me l’aspettavo, e mi ha fatto davvero riflettere sui tanti problemi che costellano questo settore: «Forse sì, ma quanto costa?»
Quanto costa, in effetti, lavorare in questo ambito? Quanto costa in termini privati, di fatica, di amicizie perse, di feste non festeggiate, di amori non vissuti, di vita rinchiusa all’interno di un ristorante? Quanto costa far felici noi, per loro?
Racchiusa in quella semplice frase c’era, forse, il vero motivo della mancanza di vocazioni nel mondo della ristorazione. Perché al di là della passione, del sacro fuoco dell’accoglienza, di quell’adrenalina che ti assale e di cui non puoi più fare a meno, il mio amico Antonio ha ragione da vendere. Fare questo lavoro è una vocazione che ti chiede in cambio di annullare ogni altro tuo amore, e non c’è molto modo di interpretarlo diversamente. Certo, se fai parte di una brigata e non sei il patron, probabilmente lavorerai meno. Se scegli un hotel con grandi strutture avrai un contratto a turni. Ma se sposi la causa, la fatica, fisica e psicologica, “sociale” oserei quasi dire, sarà sempre la tua compagna di viaggio con cui venire a patti.