«Stiamo assistendo all’inizio della fine dell’era del combustibile fossile», ha detto a settembre Fatih Birol, direttore generale dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), che di recente ha definito «inarrestabile» la transizione verso un sistema energetico fondato sulle rinnovabili.
Nella corsa globale alla decarbonizzazione, esiste un indicatore fondamentale ma ancora marginale all’interno del dibattito pubblico e politico. Parliamo del cosiddetto picco di emissioni, ossia il momento in cui la produzione di CO2 dovuta alla combustione di fonti energetiche fossili (carbone, gas, petrolio) raggiunge il suo valore massimo, per poi scendere e – auspicabilmente – non tornare più ai livelli precedenti. Ventisette delle più grandi città al mondo hanno già toccato il loro apice, ma la situazione mondiale è ben più complessa.
L’obiettivo può infatti essere di natura globale, nazionale o locale, e funziona in maniera diversa rispetto ad altri “picchi” mediaticamente più menzionati, per esempio quello dell’influenza stagionale. Il picco di emissioni di CO2 legate all’uso dei combustibili fossili, che globalmente dovrebbe verificarsi entro il 2030, è legato a fattori strutturali e consolidati all’interno del nostro sistema produttivo: dalle rinnovabili alle auto elettriche, passando per l’efficientamento energetico degli edifici. Una volta raggiunto il massimo livello, quindi, una nuova risalita è molto improbabile, considerando che, per esempio, non possiamo smantellare da un anno all’altro le e-car, le centrali eoliche o le pompe di calore.
«Una volta toccato il picco, devi scendere a rotta di collo. La cosa importante, al di là dell’anno preciso, è raggiungerlo presto. E se lo shift è legato a qualcosa di strutturale, difficilmente si risale dopo il picco», spiega a Linkiesta Stefano Caserini, ingegnere ambientale e professore di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano.
«L’Agenzia internazionale dell’energia stima entro il 2030 un picco delle emissioni mondiali di CO2 legate all’uso dei combustibili fossili, e questo è dovuto al fatto che si prevede un picco del consumo di carbone nei prossimi anni, intorno al 2024-2025», continua l’esperto.
Nel suo Energy outlook 2023, l’Iea scrive che «siamo sulla buona strada per vedere il picco di tutti i combustibili fossili prima del 2030», un obiettivo possibile nel caso in cui la domanda di carbone, gas e petrolio dovesse continuare a calare. Nel report si legge che la “quota fossile” nell’approvvigionamento energetico globale ha raggiunto il settantatré per cento nello Stated policies scenario – basato sulle politiche attuali – proiettato al 2030. Per decenni, questa percentuale è rimasta bloccata intorno all’ottanta per cento, quindi è un passo avanti incoraggiante.
Secondo Caserini, però, «non è sufficiente per restare nello scenario del grado e mezzo (di aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali, ndr). Servirebbero politiche aggiuntive anche per lo scenario Net-zero emission al 2050. Tuttavia, ci sono dei trend ormai avviati. Il picco lo vediamo all’orizzonte, ma sarebbe stato meglio ci fosse già stato». In vista della Cop28, non a caso, il Consiglio europeo ha chiesto «un’azione più intensa e maggiore ambizione a livello mondiale per fare in modo che il picco globale delle emissioni di gas a effetto serra sia raggiunto al più tardi prima del 2025».
Il picco di emissioni globale è un indicatore che riflette i progressi delle economie meno sviluppate in termini di decarbonizzazione. L’Europa, sottolinea Caserini, «ha cominciato a ridurre le sue emissioni nel 1990, quindi si presume che il suo picco sia avvenuto prima di quell’anno». Discorso simile per gli Stati Uniti, dove si è già raggiunto l’apice del consumo di carbone (la fonte fossile che, quando viene bruciata, produce più anidride carbonica). Nel mondo, però, esistono Stati il cui percorso di industrializzazione è cominciato più tardi e che, conseguentemente, toccheranno la vetta delle loro emissioni tra diversi anni.
L’esempio più calzante è quello della Cina, un Paese in via di sviluppo solo sulla carta. Pechino ha fissato al 2060 il suo impegno sulla neutralità carbonica, e il picco della sua produzione di CO2 dovuta ai combustibili fossili è stimato al 2030. Il picco globale citato dall’Agenzia internazionale dell’energia è il risultato di una media tra tutti i contesti a livello mondiale.
Nel 2022, le emissioni globali di CO2 legate all’energia sono cresciute dello 0,9 per cento (+321 Mt), raggiungendo un nuovo massimo di oltre 36,8 Gt. Nello specifico, le emissioni connesse ai consumi energetici sono cresciute di 423 Mt, mentre quelle derivanti dai processi industriali sono diminuite di 102 Mt. Il leggero incremento, inferiore all’un per cento sul 2021, testimonia che effettivamente il picco mondiale è vicino, e il merito è anche del cambio di passo della Cina (che comunque non sta facendo abbastanza).
Le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia sul picco di emissioni globale hanno delle conseguenze notevoli sul mercato dell’energia: «Questi report ribadiscono che non c’è bisogno di alcun nuovo investimento in nuove infrastrutture per estrarre carbone, gas e petrolio. Con quello che abbiamo siamo in grado di estrarre tutti i combustibili che ci servono per lo scenario di mitigazione coerente con l’accordo di Parigi: se investiamo ancora, rischiamo di uscire dalla strada», spiega Caserini.
Ciò non significa azzerare immediatamente qualsiasi investimento nei combustibili fossili: oggi non possiamo permettercelo perché le rinnovabili – il cui futuro è radioso – non sono ancora sufficientemente diffuse. L’importante, però, è che il denaro speso per gas e petrolio sia «limitato e non orientato a nuove estrazioni, perché con le strutture che abbiamo ora possiamo estrarne già troppo», prosegue l’esperto. Questo, purtroppo, non sta avvenendo. Basti pensare al Regno Unito, che quest’estate si è dato l’obiettivo di concedere almeno cento nuove licenze per l’esplorazione di giacimenti di petrolio e gas nel mare del Nord.
La transizione verde sta procedendo, ma troppo lentamente e in modo non uniforme. Le economie meno sviluppate (e climaticamente più vulnerabili) necessitano di investimenti per poter esprimere il loro potenziale nelle rinnovabili. Lo conferma ad esempio la dichiarazione di Nairobi del settembre 2023, redatta in occasione del primo Africa climate summit. Il loro ruolo nella partita della decarbonizzazione dipende dagli aiuti dei Paesi più ricchi e industrializzati.