Per quanto globale possa essere la sfida della decarbonizzazione del settore energetico, una fetta del destino del Pianeta dipende e dipenderà da ciò che accade all’interno dei confini cinesi. 9.596.000 chilometri quadrati di superficie, 1,4 miliardi di abitanti, 11,9 miliardi di tonnellate di emissioni di gas climalteranti prodotte nel solo 2021 (trentatré per cento del totale). Bastano pochi numeri per capire quanto sia decisivo il ruolo di Pechino nella transizione green.
Hub energetico verde; principale attore globale nella produzione di terre rare (necessarie per le tecnologie alla base della transizione green, come le batterie delle auto elettriche); primo importatore al mondo di idrogeno verde entro il 2030 (secondo Deloitte); sabotatore di ambiziosi obiettivi climatici nelle sale delle Cop; “installatore seriale” di impianti rinnovabili e, al tempo stesso, nostalgico del carbone (responsabile del sessantanove per cento delle emissioni cinesi) e simbolo di un sistema produttivo per nulla sostenibile in termini sociali e ambientali. Le mosse del Paese asiatico in tema di decarbonizzazione risultano spesso torbide e ambigue – e non potrebbe essere altrimenti, considerando il contesto politico basato su un modello autoritario –, ma i miglioramenti sono innegabili.
A parlarne è stato il Global energy monitor (Gem), gruppo di ricerca internazionale che collabora con l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) e la Banca mondiale. All’interno del suo nuovo report, intitolato “A race to the top – China 2023”, la nonprofit con sede a San Francisco ha mostrato che in Cina le installazioni di pannelli fotovoltaici stanno crescendo a un ritmo elevatissimo, mai visto prima. Continuando così, la capacità globale aumenterà dell’ottantacinque per cento non entro il 2050 o il 2040, ma entro il 2025.
Secondo la ricerca, gli obiettivi 2030 di Pechino nelle rinnovabili potrebbero essere raggiunti tra meno di due anni. Uno di questi è l’installazione di milleduecento gigawatt di energia solare ed eolica entro il 2030, un target annunciato da Xi Jinping nel 2020. Attualmente, facendo due calcoli, la Cina è a quota cinquecentotrentotto.
La Cina, Paese in via di sviluppo solo sulla carta (un problema in vista del risarcimento climatico in favore degli Stati più poveri e vulnerabili), ha fissato l’obiettivo delle emissioni nette nero nel 2060 (dieci anni dopo l’Unione europea e dieci anni prima dell’India), mentre per il 2030 – anno in cui è previsto il picco di emissioni – punta a ridurre del sessantacinque per cento la sua “intensità carbonica” rispetto ai livelli del 2005.
La capacità solare su larga scala della Cina ha raggiunto i duecentoventotto gigawatt: più del resto del mondo messo assieme. La maggior parte di queste installazioni è concentrata nelle province del nord e del nord-ovest, con il podio occupato nell’ordine da Shanxi, Xinjiang e Hebei.
Per quanto riguarda l’eolico, Pechino ha raddoppiato la sua capacità rispetto al 2017: ora è a quota trecentodieci gigawatt. Le previsioni del Gem sostengono che lo Stato asiatico, entro il 2025, possa raddoppiare la quantità di energia prodotta grazie al sole e al vento. E questo avrebbe un impatto positivo a livello globale. Concentrandoci sull’eolico offshore (in mare), la potenza installata e operativa ha toccato i 31,4 gigawatt: più di tutta l’Europa messa assieme.
Secondo il report, grazie ai miglioramenti della Cina la flotta globale di turbine eoliche lieviterà del cinquanta per cento. Per il solare, come anticipato in precedenza, la percentuale salirebbe all’ottantacinque per cento. La crescita attuale, spiega il Global energy monitor, è il frutto di leggi e piani elaborati più di due decenni fa. In quel periodo, va specificato, la Cina era già il principale fornitore globale di moduli fotovoltaici. Un vantaggio competitivo che ha gradualmente ridotto i costi lungo tutta la catena di approvvigionamento, contribuendo a rendere la costruzione di impianti rinnovabili molto più snella e competitiva.
Lo sviluppo è stato innescato anche dai sussidi e dalle leggi che chiedono a ogni provincia cinese di raggiungere obiettivi specifici in fatto di produzione di energia pulita e non dannosa per il clima. Secondo il Gem, il cinquantacinque per cento dei soldi spesi a livello globale nell’eolico e nel solare è arrivato dal portafoglio della Cina. Tutti questi passi avanti, secondo Martin Weil, uno degli autori del report, «sono una base per permettere alla Cina di raggiungere il picco di emissioni di carbonio prima del 2030».
L’altra faccia della medaglia, però, vede la curva delle emissioni cinesi (sia annue, sia pro capite) in costante salita, così come quella che rappresenta lo sfruttamento del carbone come fonte di energia. La crescita delle rinnovabili è innegabile, ma deve essere accompagnata da una drastica riduzione dei combustibili fossili che Pechino – principale utilizzatore globale di carbone – continua a bruciare senza sosta.
Nel solo 2022, la Cina ha costruito in media due nuove centrali elettriche a carbone alla settimana. Molte di loro, secondo il report, si trovano nei nuovi parchi eolici e solari, spesso per fornire energia di riserva e garantire la continuità dell’approvvigionamento energetico (in modo tale da compensare l’intermittenza delle fonti rinnovabili): «Il grosso problema per il futuro è come verranno effettivamente implementate queste centrali a carbone», ha detto Weil in un’intervista rilasciata alla Bbc.
In questo quadro, diversi studi continuano a certificare un’impennata della disinformazione sul clima all’interno del Paese. Non solo sui social media. Ormai più di un decennio fa, il noto presentatore televisivo Larry Lang Hsien-ping, conduttore dello show “Larry’s Eyes on Finance”, definì il cambiamento climatico «una bufala occidentale, fabbricata senza alcuna integrità scientifica». Negli anni, le fake news green non hanno smesso di proliferare e, come scrive Purple Romero (esperta di fact-checking dell’università di Hong-Kong) sul portale Climate Home News, «sono ancora molto vive» anche perché «i tentativi ufficiali di reprimere post fuorvianti, ad esempio quelli contro Greta Thunberg, non sono così evidenti».