A prova di ottusitàGli equivoci su AstraZeneca, la candeggina e la nostalgia della comunicazione verticale

Bisogna scandire bene che le malattie sono brutte e le medicine una cosa buona, che i biscotti di cui il treno sta per omaggiarvi non sono avvelenati. Siamo sicuri che la comunicazione debba essere così elementare? Così livellata perché l’ultimo della classe la capisca?

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C’è una battuta che fa Ricky Gervais parlando del suffragio universale, più o meno fa così: togliete tutti gli avvisi «non bere» dalla candeggina per due anni, e poi facciamo votare solo i sopravvissuti.

Significa «se sei troppo scemo per non sapere da solo che la candeggina non devi berla, sei troppo pericolosamente scemo per farti partecipare a decisioni che riguardino la collettività». È una di quelle battute che fanno scattare impermalimenti assortiti: tu non sei democratico, tu non vuoi includere le fasce più deboli, tu sei fascista classista satanista.

Penso alla battuta di Gervais ogni volta che sono nella carrozza silenzio d’un Frecciarossa, carrozza silenzio che non è silenziosa per due ragioni.

La prima è che non sappiamo leggere le etichette della candeggina, figuriamoci i numerosi segnali di divieto di stare al telefono: c’è sempre qualcuno al quale, dopo dieci minuti di chiacchierata, devi far presente che se vuole far conversazione ci sono altre undici carrozze a sua disposizione, e quello in genere se la prende tantissimo (la telefonata era sempre vitale: abitiamo in un mondo ad altissima densità di cardiochirurghi).

La seconda ragione è che, quelle rare volte in cui càpiti nella carrozza silenzio dei miracoli, quella in cui tutti i passeggeri non solo sanno leggere l’etichetta della candeggina ma sono pure beneducati, c’è comunque la voce registrata che, dagli altoparlanti, annuncia fortissimo: da dove è partito il treno; dove arriva; che fermate fa; che tra un po’ passeranno a distribuire lo snack; che Trenitalia ti dà il benvenuto a bordo (a bordo della carrozza nella quale hai scelto di pagare per non venire disturbata da voci superflue).

Ora, io mi rendo conto che l’umanità che ha bisogno d’essere messa in guardia dall’utilizzo della candeggina nei cocktail possa sentirsi destabilizzata se un impiegato di Trenitalia le lascia una confezione di biscotti senza che nessuno l’abbia avvisata che di lì a poco un impiegato di Trenitalia le avrebbe lasciato una confezione di biscotti, ma: siamo sicuri?

Siamo sicuri che la comunicazione debba essere così elementare? Così livellata perché l’ultimo della classe la capisca? Così a prova di ottusità? (Diceva una delle leggende riguardanti la Fininvest degli anni 80 che Silvio Berlusconi chiedesse programmi comprensibili non solo da un ragazzino delle medie, ma da un ragazzino delle medie che fosse l’ultimo della classe: la candeggina e la carrozza silenzio sarebbero dunque figlie dell’egemonia berlusconiana).

Ci ho ripensato ieri, mentre una signora dell’Agenzia Europea per il Farmaco parlava ai giornalisti stiracchiando a quasi un’ora la comunicazione «non sapremo niente di certo fino a giovedì, ma finora ci pare che il numero di effetti collaterali sia in linea con le aspettative, anzi vi dirò pensavamo peggio». Spinaceto, hanno pensato i cinefili del secolo scorso.

La signora, e coloro cui dava la parola, ci ricordavano ogni due minuti circa che il Covid è una cosa brutta brutta brutta, che ha ammazzato tanta gente, e che il vaccino previene altre morti. Ma non lo ricordavano a noi, che eravamo lì a spiare (in quanti avranno guardato per diletto una diretta della conferenza stampa dell’Ema?): lo ricordavano ai giornalisti collegati.

Usavano, con una platea di giornalisti che era lì per dare conto della conferenza di chi regolamenta l’uso dei medicinali in Europa, la ricorsività e l’elementarietà che si usa per far entrare in testa a dei bambini un concetto facile per tutti ma non per loro.

Da dove deriva questa scelta? Dalla volontà che i giornalisti collegati così riportino le cose al grande pubblico, grande pubblico non molto più sveglio di quello della Fininvest anni Ottanta? O dalla convinzione che anche i giornalisti non siano poi sveglissimi e sia necessario far loro dei disegnini perché capiscano bene cosa dire e come dirlo?

Ieri sul Twitter italiano girava una scaramuccia tra chi ritiene gli allarmismi siano colpa dei social, e chi dei giornali. Sono i giornali che sbagliano a fare da cassa di risonanza ai picchiatelli dell’internet, o è l’internet che riporta titoli di giornale che altrimenti nessuno leggerebbe, in un paese in cui i quotidiani nel migliore dei casi vendono qualche decina di migliaia di copie, e Facebook ha invece decine di milioni di iscritti?

Qualche settimana fa un’agenzia di stampa ha pubblicato una notizia che mi riguardava. Nei giorni successivi praticamente tutti i giornali italiani hanno ripreso quella notizia, e tutti sbagliavano la stessa data, lo stesso nome, gli stessi dettagli. Chissà come chiamano questo fenomeno quelli troppo giovani per sapere cosa sia la carta carbone. Forse “echo chamber”. Se la notizia non mi avesse riguardato e non avessi letto quella prima agenzia, non saprei chi ha sbagliato per primo: tutti riecheggiano tutti.

Quindi tocca scandire bene che le malattie sono brutte e le medicine una cosa buona, che i biscotti di cui il treno sta per omaggiarvi non sono avvelenati, che la candeggina serve per pulire i sanitari e non per farcisi un aperitivo.

Non dico che venga nostalgia dell’uomo forte, ma della comunicazione verticale sì, tantissima.

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