Dai massacri del 7 ottobre in poi, cioè da prima ancora che Israele avesse reagito in alcun modo, abbiamo assistito a una preoccupante radicalizzazione nel linguaggio, negli slogan e negli atti di un certo mondo progressista tradizionalmente schierato a favore della causa palestinese, in forme che solo pochi anni fa sarebbero state impensabili. Se inizialmente a colpirmi era stata soprattutto la totale assenza di empatia e solidarietà umana dinanzi ad alcuni dei crimini più efferati e ripugnanti della storia recente, con il passare dei giorni mi sono convinto non sia più questione di sensibilità per quanto accaduto, ma di preoccupazione e senso di responsabilità per quanto sta accadendo.
Un pezzo rilevante di quella sinistra che si è sempre legittimamente battuta a favore della causa palestinese si trova oggi, secondo me, dinanzi a un’alternativa non più eludibile. Lo definirei il dilemma di Zerocalcare.
A me pare infatti che Zerocalcare, al momento, abbia due strade davanti a sé. La prima è approfittare di tutti gli attacchi più stupidi e più sguaiati che gli sono stati rivolti per uscirne alla grande, tra gli applausi di chi già pensava avesse fatto benissimo a boicottare una fiera del fumetto perché sponsorizzata dall’ambasciata di Israele e ancor di più lo penserà alla fine di questa polemica (se mai finirà).
La seconda strada è cogliere l’occasione per allargare un po’ il discorso, senza necessariamente fare autocritica o rimangiarsi alcunché, ma prendendo perlomeno in considerazione alcuni dei fatti avvenuti dopo la sua scelta, che in parte ne sono la diretta conseguenza e in parte no.
Alcuni di quei fatti erano prevedibili, come l’eco che la sua decisione avrebbe avuto. Ma forse non era scontato che l’impatto fosse tale da spingere anche altri artisti a non partecipare alla fiera, compresi gli artisti israeliani che ne avevano disegnato il manifesto, e che a quel punto, visto il clima, hanno preferito restarsene in Israele.
Non so il resto, ma scommetterei che almeno quest’ultima conseguenza Zerocalcare non l’avesse immaginata e non credo proprio che gli abbia fatto piacere, tanto meno nel momento in cui in tutto il mondo si moltiplicano gli atti di antisemitismo più orrendi: dai neonazisti che hanno dato fuoco al cimitero ebraico di Vienna ai ragazzi (apparentemente di tutt’altra collocazione ideologica) che a New York strappano i manifesti con le foto degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas (si può immaginare un gesto più vile e disumano?), fino alle (diverse) pietre d’inciampo, poste in ricordo delle vittime dell’Olocausto, che sono state vandalizzate a Roma.
Molti di questi fatti Zerocalcare non li poteva prevedere, dunque potrebbe legittimamente prenderne spunto per provare ad abbozzare una riflessione un po’ più articolata e meno manichea sulla sua scelta e su tutto quello che ne è seguito, prima di venire accomunato ai tanti che oggi, non solo nei paesi arabi, ma anche in Europa e in America, sembrano essersi convinti che le responsabilità di Israele nel conflitto con i palestinesi giustifichino qualunque atrocità nei confronti dei loro cittadini e degli ebrei in generale.
Accusare Zerocalcare di essere un sostenitore di Hamas non ha senso, anche se la sua risposta («Sono stato più volte in Siria quando c’era l’Isis per supportare i curdi e chi combatte sul campo il jihadismo. Lo faccio ancora tutti i giorni come posso. Amiche e amici miei più coraggiosi di me ai jihadisti gli sono andati a sparare direttamente») fa pensare che se avesse avuto più amici tra gli israeliani presi in ostaggio magari ci avrebbe pensato due volte prima di innescare tutto questo casino. Anche perché, e questo doveva saperlo pure prima, la bandiera di uno stato e la sua ambasciata non rappresentano il governo, ma l’intero paese. Infatti, quelli che in piazza bruciano le bandiere di Israele o ne assaltano le ambasciate non hanno mai pensato di lanciare un messaggio a favore dell’opposizione né di chiedere un cambio di governo. Hanno sempre avuto chiarissimo il loro obiettivo, che era e resta la cancellazione dell’intero stato di Israele («from the river to the sea», come si canta nelle piazze). Una procedura che non prevede molte soluzioni alternative per i nove milioni di persone che lo abitano attualmente.
Anche su questo scommetterei che Zerocalcare non sia affatto d’accordo, come non lo sono di certo tante di quelle brave persone di sinistra che intonano ingenuamente nelle piazze simili slogan (un codice che sta semplicemente per «morte agli ebrei»).
Metterlo subito in chiaro, anche in quelle piazze e in quei movimenti, così come nei partiti, nei centri sociali e nelle scuole, sarebbe dunque anzitutto nel loro interesse, com’è nell’interesse di chiunque voglia continuare a sostenere la causa palestinese, a contestare l’assedio di Gaza e ogni altra scelta del governo israeliano, a denunciare gli abusi del suo esercito e le violenze dei coloni in Cisgiordania, senza confondersi con chi inneggia ai massacratori in parapendio e senza alimentare, nemmeno indirettamente, la terribile ondata di antisemitismo che è già tornata a sommergerci. E che è dovere di tutti arginare, ciascuno al proprio posto e secondo le proprie possibilità.