I disagiati Zerocalcare, i punti visibilità, e i capezzoli finti di Kim Kardashian

I social sono pieni di gente che si scusa perché non parla di Gaza, di gente che viene strigliata perché non ne parla abbastanza, di gente che fino a ieri concorreva nei reality e oggi ci spiega la geopolitica, perché se non lo fa viene accusata d’ignavia

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E quindi neanche oggi posso parlare dei capezzoli finti di Kim Kardashian, unico elemento culturale nuovo in questo 2023. Kim Kardashian ha messo in commercio della biancheria coi capezzoli finti così anche se c’è il riscaldamento globale potete averli fintamente turgidi, e a me tocca occuparmi di mitomanie social.

La convergenza del principale filone di mitomania di questo secolo, quello per il quale se non partecipi allo scandalo del giorno, alla tendenza del giorno, al tema del giorno ti viene il mal di testa, la convergenza avviene ovviamente sui social, all’incrocio tra la morte d’un attore americano e una fiera del fumetto.

Liquidiamo rapidamente coloro che partecipano al lutto del giorno dicendo «“Friends” è la serie che mi ha formato». A volte sono miei coetanei. Avevo venticinque anni, quando “Friends” arrivò in Italia. Non c’era in me più granché da formare, ma soprattutto la sera uscivo. Se a venti o trent’anni stavi in casa a vedere un telefilm, capisco perché a cinquanta tu stia sull’internet a sperare di renderti interessante sbracciandoti sul lutto del giorno.

C’è una parola che viene usata nella scomposizione dei dati d’ascolto televisivi. C’è una tipologia di programma (storicamente, per esempio, gli sceneggiati di Rai 1) che va fortissimo presso una specifica categoria commerciale di esseri umani.

Descrittivamente, sono cittadini meridionali poco istruiti. Tecnicamente, nei documenti d’analisi dello share, si chiamano «disagiati». (Oddio, spero che quest’informazione che chiunque sappia due cose di televisione già aveva non crei uno scandalo presso i critici televisivi della generazione nun sape mai nu cazz’).

Pubblico senile di “Friends” a parte, se posso arrubbare l’etichetta all’Auditel, mi pare che «disagiati» sia perfetto per coloro che per hobby fanno i juke-box di pareri: poiché ogni mese pagano una tariffa fissa all’operatore telefonico, devono ammortizzarla.

E quindi l’altroieri una fondamentale opinione su Gaza, ieri un dirimente parere su Matthew Perry, oggi un ficcante penzierino su Luccacomics, che tra le altre cose mi priva del privilegio di non sapere cosa fosse.

Ora ho un’informazione inutile in più, a occupare un neurone che potrebbe essere dedito all’apprendimento del punto croce: Luccacomics è una fiera dei fumetti, cioè una fiera dove vanno gli adulti troppo fessi per leggere pubblicazioni non illustrate. Sposta un sacco di soldi, giacché tra un po’ persino le pubblicazioni illustrate saranno considerate troppo sofisticate dall’unica vera ideologia del secolo, la pigrizia intellettuale. Sposta un sacco di soldi, ma è pur sempre una fiera.

Siamo forse in pieno boom economico? Abbiamo risolto tutti ma proprio tutti i problemi seri? Solo così si spiegherebbe il continuo polemizzare sulle fiere. Se non è il Salone del libro di Torino, sono i fumetti di Lucca. Ve lo dico: se riuscite a polemizzare pure sulla fiera delle profumerie o su quella dei motori io vi cedo il primato di chi ha più tempo da perdere di tutti, che finora detenevo imbattuta.

Quindi Zerocalcare – fumettista romano, casomai foste persino meno preparati di me sul settore – annuncia che non andrà a Lucca, a vendere migliaia di copie (il picchiatello tipo che compra un biglietto per entrare a una fiera di fumetti si fa pure ore di fila per farsi fare il disegnino personalizzato dal disegnatore sul libro di disegni, una versione con pretese culturali del liceale che si va a fare la foto con lo youtuber).

Non ci va perché, spiega nel post con cui annuncia la sua decisione, sul poster della manifestazione, disegnato da due disegnatori israeliani, c’è il logo dell’ambasciata d’Israele, come abitualmente avviene quando un disegnatore forestiero fa il poster di questa fiera.

Annuncia che non ci va perché conosce il suo pubblico e sa che «o Israele o me» è quello che vogliono sentirsi dire, persino più di quanto vogliano l’autografo? Annuncia che non ci va perché conosce il pubblico di questo secolo e sa che la complessità non è cosa e che se andasse a fare una conversazione coi disegnatori israeliani sull’importanza della convivenza scontenterebbe quelli che vogliono sapere in che curva di stadio ti siedi, cioè tutti? Annuncia che non ci va perché ha un contratto con Netflix ed è forse l’unico disegnatore italiano al quale gli incassi di Lucca non cambino granché?

Non lo so (come non lo sapete voi) e non ho intenzione di fare ipotesi (diversamente da voi). A poche cose tengo quanto all’essere una dei felici pochi che sanno che le persone intelligenti non si mettono a discutere di questione israelopalestinese neppure se è la moda del momento su Instagram: non lo fanno specialmente quand’è la moda del momento su Instagram.

Lo so che è una battaglia persa. Lo so che «ma cosa parlate di cose di cui non sapete niente» è una mozione d’irrisoria minoranza: ho Instagram pieno di gente che si scusa perché non ne parla, di gente che viene strigliata perché non ne parla abbastanza, di gente che fino a ieri concorreva nei reality, sciorinava sponsor, postava meme, e oggi ci spiega la geopolitica, perché se non lo fa viene accusata d’ignavia, e non ha letto né Claudio Giunta né Marcel Proust (e certo non può recuperarli ora che è impegnata a cercare Ramallah su Wikipedia) e quindi non sa organizzare una rapida arringa in difesa dell’ignavia.

Dire la tua sul tema del giorno non solo ti fa sentire con la coscienza a posto, non solo ti risparmia i cazziatoni degli engagé più engagé di te, ma fa anche punteggio-visibilità. I poveri fumettisti sono lì che soppesano il fatturato, mi si nota di più se rinuncio o se motivo la conferma, se vado e al firmacopie dico «Israele merda» o se non vado ma specifico di avere tanti amici ebrei e persino un paio di dvd di Woody Allen.

L’agitazione da posizionamento potrebbe essere un buon tema per un fumetto di Gipi (che non leggerei perché sono troppo grande per i disegni, ma quando ne parla mi sembra sempre d’intuire che la sua roba dica cose intelligenti: peccato le dica con le illustrazioni).

Ieri ha comunicato la sua rinuncia Fumettibrutti, e io lo so che per queste righe verrò iscritta d’ufficio ai nazisti dell’Illinois, ma Fumettibrutti è una disegnatrice trans. Significa che si è fatta tagliare da un medico degli organi sessuali perché ha deciso di non essere del sesso di cui l’aveva fatta la natura. Se pensate che sia un fatto non inerente alla questione mediorientale, beati voi.

Abbiamo prodotto una società in cui una persona così può illudersi che ci siano fondamentalismi religiosi con cui trovarsi più in sintonia di altri. Può pensare che le teocrazie non si dividano tra quelle che la considererebbero una reproba e quelle che la decapiterebbero persino più velocemente di quanto farebbero con Kim Kardashian, i cui capezzoli turgidi violano i precetti della teocrazia instagrammatica, più rigorosa degli ayatollah.

Vendiamo solide illusioni, avendo nel frattempo evidentemente risolto tutti i problemi concreti (a parte i posti negli asili, le liste d’attesa per la tac, e l’incapacità dei baristi romani di fare un cappuccino decente). Abbiamo creato il mondo dei sogni, e lo stiamo abitando. Cerchiamo almeno di non lamentarcene.

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