Il più autorevole dizionario americano, il Merriam-Webster, ha scelto nei giorni scorsi la parola dell’anno che sta per finire: si tratta di “authentic”. E certo il problema di distinguere ciò che è autentico da ciò che è falso è uno dei più insidiosi, in un’epoca nella quale la potenza aggressiva dei fake è moltiplicata dalle più recenti applicazioni dell’Intelligenza Artificiale. In Italia, però, questo aggettivo è da diversi anni la parola dell’anno. O almeno una delle più utilizzate da chi vorrebbe esprimere una qualche qualità molto positiva, e nella penuria lessicale che inchioda il linguaggio medio deve dibattersi in una scelta lacerante: quella tra “autentico”, appunto, e il suo gemello (di banalità) “vero”.
Il primo dei due aggettivi va forte nelle pubblicità e più in generale nelle “narrazioni” (dell’abuso di questo vocabolo “Linguaccia mia” si è già occupata) che magnificano i pregi di un prodotto alimentare o di una bevanda, tipicamente come qualificativo del sostantivo “sapore”, o anche quelli di una località turistica (un “paesaggio autentico”). Che cosa poi voglia significare di preciso questa autenticità è difficile a dirsi.
Sorvolando sull’accezione tecnica (e non troppo incoraggiante) che la parola ha nella filosofia esistenzialista heideggeriana, “autentico”, secondo il vocabolario (in questo caso il Treccani), è essenzialmente ciò “che è vero” (da buoni gemelli, i due aggettivi si richiamano l’un l’altro): ossia “non falso, non falsificato, e che si può provare come tale: firma autentica; atto autentico, l’atto pubblico o, in genere, l’atto in originale munito di prova indubbia della sua origine; copia autentica, la cui conformità all’originale è attestata da un notaio o da altro depositario pubblico autorizzato, e che fa fede come originale”. Per estensione, questo aggettivo si può inoltre predicare “di opera d’arte o di letteratura, di scritto e simili, che appartiene veramente all’autore cui è attribuito, e non è un’imitazione o un falso” (il vocabolo, attraverso il latino authenticus, è infatti connesso al sostantivo greco authéntes, detto di chi “opera da sé”, è “iniziatore” o “fattore principale” di qualche cosa), come pure “di racconto, relazione e simili, che corrisponde esattamente alla realtà e perciò merita fede”.
Ora, che un sapore possa essere “autentico” come una firma in calce a un assegno o come un quadro munito di expertise non sembra molto probabile. C’è però anche un’accezione figurata dell’aggettivo, quale sinonimo di “vero” (rieccolo), “genuino”, “schietto”, come quando si dice, per esempio, “autentico buffet Biedermeier”, “autentica lana merino”; o quando gli si conferisce un valore asseverativo, “un autentico miracolo”, o anche un’intenzione ironica, “un autentico imbecille” (in alternativa a “emerito imbecille”). È verosimilmente nei dintorni di questa accezione che si aggirano i “sapori (e i paesaggi) autentici”. Un sapore autentico è un sapore genuino, naturale, non alterato, non sofisticato, per esempio “i sapori autentici della tradizione” (ma quale sapore ha la tradizione?); e un paesaggio autentico è un paesaggio che si è conservato com’era (ma com’era quando?), senza subire interventi invasivi da parte dell’uomo, in particolare dell’uomo contemporaneo.
Va detto, tuttavia, che non sempre una autenticità siffatta ha implicazioni positive: per esempio certi cibi hanno bisogno di essere in vario modo trattati e alterati per risultare gradevoli, se non per diventare commestibili, e certi paesaggi naturali, abbandonati a sé stessi, possono rappresentare un pericolo (argini di torrenti non rinforzati, boschi fitti di vegetazione e privi di piste tagliafuoco). E quindi qualificare qualcosa come “autentico” significa esporlo a una potenziale ambiguità, eliminabile soltanto sulla base di un consenso tra soggetto emittente e soggetto ricevente circa la connotazione incidentalmente buona dell’aggettivo. Un aggettivo, in questo uso vaniloquente di carattere pubblicitario-commerciale, autenticamente anodino, un guscio vuoto che viene esibito per fare impressione, in carenza di parole meno vaghe capaci di dargli un contenuto.
Lo stesso accade quando si fa ricorso al suo gemello “vero”. Anche qui è uno spot a fare scuola, quello celebre di un amaro che da trent’anni ci martella con il suo “sapore vero”. Cosa sarà mai un “sapore vero”? Come distinguerlo dai sapori falsi?
Il lemma “vero” esibisce un ventaglio di definizioni anche più ricco dell’aggettivo “autentico”, sebbene tutte riconducibili a un significato unitario: quello di qualche cosa (citiamo questa volta dallo Zingarelli) “che possiede in modo totale e incontestabile le caratteristiche proprie della sua natura, della sua condizione e simili: vero Dio e vero uomo; quello è il mio vero padre” o “che è pienamente conforme alla realtà oggettiva: storia, notizia, informazione vera” – significati che possono essere resi con sinonimi quali “effettivo”, “reale” o lo stesso “autentico”. Ma sostenere che un sapore è “vero”, in questo senso, ha poco senso: che cosa vuol dire che un sapore è effettivo, o che è reale? Che cosa aggiunge sapere che possiede le caratteristiche proprie della sua natura, se questa natura non sappiamo quale sia? È come voler spiegare qualche cosa di ignoto attraverso qualche cosa di ignoto.
Anche “vero”, però, così come “autentico”, può avere un senso figurato (“un vero amore” è un amore “intenso, sincero e profondo”) e uno enfatico: quando, riferito a una persona in abbinamento a un sostantivo a cui è preposto, è inteso a accentuarne le caratteristiche (“un vero amico”, “un vero artista”). È in questi àmbiti semantici che gravita il “sapore vero”. Senonché, quando l’aggettivo non è preposto ma posposto, le cose possono cambiare: se un “amico vero” non si differenzia sostanzialmente da un “vero amico”, un “uomo vero” (ossia dotato di tutti quei requisiti che in genere si associano al meglio della virilità) non sempre è identico a un “vero uomo”; il più delle volte, anzi, senza precludersi la possibilità di esserlo, allude a qualche cosa di distinto, anche se tutt’altro che definito, equiparabile piuttosto a un’altra figura che da qualche tempo affolla il linguaggio: la “persona vera”.
Sempre più spesso accade di imbattersi in “persone vere”: non in carne e ossa, beninteso, ma nella rappresentazione verbale che ce ne viene fornita – e che, per contrasto, postula un soverchiante correlato di “persone finte”. Una “persona vera” è tale appunto perché non finge, non si atteggia, non tradisce, è leale, sincera e diretta. La signora che si infervora a raccontarmi le qualità di una certa persona diversa dalle altre (dico una signora perché mi torna in mente un episodio in cui era in effetti una signora a parlare, ma altrimenti potrebbe benissimo essere un signore) esita un attimo, cerca la parola, la pronuncia con ispirato slancio: “… una persona vera!”. Ecco, signora, cerchi ancora.