«La candidatura della Spagna è molto forte: per la guida della Banca europea per gli investimenti ha fatto il nome della prima vicepresidente del governo». La profezia auto-riferita in terza persona da Nadia Calviño, alla vigilia del giorno dell’investitura, si è avverata. È lei, ministra dell’Economia, numero due dell’esecutivo di Madrid, e presidente di turno del Consiglio Ecofin durante il semestre in cui la Spagna ha la presidenza del Consiglio, che dal prossimo anno assumerà la guida della Bei. Prima donna ad arrivare alla testa della banca dell’Ue con sede in Lussemburgo, in un momento in cui l’istituzione è in grande spolvero, Calviño, già a capo della direzione generale Bilancio della Commissione qui a Bruxelles prima di accettare un posto nell’esecutivo di Pedro Sánchez, torna sulla scena tecnico-politica Ue dopo aver perso (evidentemente senza demoralizzarsi), tre anni fa, la corsa per presiedere l’Eurogruppo, il consesso informale dei ministri delle Finanze dell’Eurozona.
Durante la colazione di lavoro che ha preceduto l’Ecofin dell’8 dicembre, il ministro belga Vincent Van Peteghem, incaricato di istruire la pratica in qualità di presidente di turno del consiglio dei governatori della Bei (che poi sono gli stessi titolari dei conti pubblici dei Ventisette), ha comunicato il responso della sua operazione di scouting iniziata dopo l’estate, e da cui nelle ultime settimane la spagnola era emersa come la chiara frontrunner. Davanti alla principale sfidante, la liberale danese Margrethe Vestager, vicepresidente esecutiva della Commissione e titolare della Concorrenza in aspettativa senza stipendio da inizio settembre, e all’outsider proposto dal governo italiano, il tecnico ed ex ministro dell’Economia nell’esecutivo Draghi Daniele Franco.
Alle spalle i candidati interni alla Bei, due degli otto vicepresidenti in carica, la polacca Teresa Czerwińska e lo svedese Thomas Östros. «Nadia ha tutte le qualità necessarie per gestire la più grande istituzione finanziaria multilaterale al mondo, indirizzando i finanziamenti necessari alle imprese e sostenendo gli investimenti per stimolare la competitività e la crescita sostenibile dell’Europa», ha scritto Van Peteghem su X, l’ex Twitter, comunicando l’esito della consultazione, da cui è emerso che la socialista Calviño ha dalla sua la doppia soglia necessaria alla nomina, cioè il sostegno di almeno diciotto Paesi in rappresentanza del sessantotto per cento del capitale della Bei. La sua nomina sarà adesso finalizzata per iscritto nel giro di qualche settimana.
L’Italia aveva, in precedenza, rotto la procedura di silenzio-assenso avviata da Van Peteghem, tenendo il punto sul nome di Franco. Formalmente, il governo non ha mai ritirato la candidatura dell’ex ministro ed ex direttore generale di Bankitalia, salvo poi non nascondere l’insofferenza per come sono andate le cose. Diversamente si è mossa, invece, la Danimarca che, d’accordo con Vestager, ha fatto un passo indietro per galateo istituzionale; la vicepresidente della Commissione ha annunciato che riprenderà le sue funzioni nell’esecutivo di palazzo Berlaymont.
Nessuno, stando a quanto si è appreso a margine a Bruxelles, avrebbe sollevato opposizione rispetto alla convergenza su Calviño, apparsa inevitabile. Tranne l’Italia, con il ministro Giancarlo Giorgetti che, secondo quanto riferito da fonti del Mef, ha contestato l’iter seguito dai belgi per la selezione, prima di affidarsi alla massima calcistica di Vujadin Boškov per rimettersi alla decisione dei suoi colleghi: «Rigore è quando arbitro fischia».
Un clima mesto da dopo-partita che si è registrato anche negli spogliatoi (pardon, nel punto stampa alla Lanterna dell’Europa Building), quando Giorgetti s’è fatto scappare ancora una volta tutta l’irritazione per l’onnipresenza della doppia Calviño presidente in carica (del Consiglio) e candidata presidente (della Bei): «Se Franco fosse stato ancora ministro al mio posto, se la sarebbe potuta giocare anche meglio». Cioè, alla pari con la collega spagnola. Che – è la critica piovuta dai suoi detrattori – ha giocato in questi mesi su più tavoli. Dando le chiavi della trattativa sul futuro del Patto di stabilità e crescita in mano a Germania e Francia, gli adults in the room fondamentali per ottenere la maggioranza qualificata per la Bei (Berlino si è esposta nel sostegno, Parigi ha tenuto le carte semicoperte fino all’ultimo).
Secondo questa ricostruzione, Madrid avrebbe, invece, ritagliato per sé un ruolo quasi notarile di facilitazione del dialogo tra i due rappresentanti di chi, da una parte, chiede più flessibilità sugli investimenti e di chi, dall’altra, insiste per ulteriori salvaguardie sui conti pubblici.
Una certa dose di irritualità per la duplice veste di Calviño (che a differenza di Vestager non si è mai sottratta dai riflettori per supposta incompatibilità durante la campagna elettorale per la Bei), del resto, era palpabile anche nei briefing periodici con la stampa, con la presidenza del Consiglio chiamata più volte a rispondere alle domande sulla candidatura spagnola. Un po’ come, in parallelo, s’è trovata a fare nella gestione di un altro spinoso dossier rispetto al quale interessi interni ed europei si sono intrecciati inestricabilmente, cioè il tema della promozione di catalano, basco e galiziano come lingue ufficiali dell’Ue (tra i punti più controversi dell’intesa del premier Pedro Sánchez con i partiti regionalisti).
Alla Spagna, una presidenza di spicco Ue mancava dal 2007, quando Josep Borrell lasciò la guida del Parlamento europeo. Ma questo non le ha impedito di incassare caselle di peso, negli anni: per limitarci ai soli esponenti in carica, Madrid ha ripiazzato proprio il socialista Borrell come Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza comune, Luis de Guindos come numero due della Banca centrale europea e José Manuel Campa a capo dell’Autorità bancaria europea (Eba).
La Bei, però, non è mai stata così popolare. Fino a fine anno presieduta dal tedesco Werner Hoyer, la Banca europea per gli investimenti è diventata, nel tempo, la principale istituzione finanziaria multilaterale al mondo, con un bilancio, oggi, di oltre cinquecentoquarantaquattro miliardi di euro e un capitale sottoscritto di duecentoquarantanove. Con i suoi prestiti agevolati, vuole ritagliarsi un ruolo chiave pure nel finanziamento della ricostruzione ucraina e della transizione verde tanto dentro quanto fuori l’Ue. «Chi non vorrebbe girare l’Europa e il mondo brandendo generosi assegni?», è la battuta ricorrente nei corridoi brussellesi, a voler spiegare l’inedita fascinazione per un ruolo che ha, oltretutto, lo stesso trattamento salariale (oltre trecentomila euro l’anno) della presidente della Commissione Ue. Dietro la corsa c’è anche un anticipo di stagione: quella delle nomine che prenderà il via tra meno di sei mesi, dopo le elezioni europee, quando andranno rinnovate in blocco tutte le istituzioni Ue.