Sono entrato in politica esattamente dieci anni fa, in coincidenza con la parabola discendente del governo di Mario Monti. Durante questo lustro ho fatto il viceministro; il rappresentante permanente presso l’Unione Europea; il ministro dello sviluppo economico. Dopo l’esperienza di governo mi sono iscritto al Partito democratico; sono stato eletto al parlamento europeo; sono uscito dal PD in occasione dell’alleanza con i Cinquestelle; ho fondato Azione; mi sono candidato a fare il sindaco di Roma; ho guidato il Terzo Polo alle elezioni politiche e l’ho visto naufragare dopo pochi mesi. Dieci anni di cambiamenti frenetici dettati dall’irrequietezza dei tempi, del contesto politico, dell’elettorato e anche del mio carattere.
Ho assistito alla parabola di Matteo Renzi, dei Cinquestelle, di Matteo Salvini e da ultimo di Giorgia Meloni. In questi anni tutto è cambiato e nulla è cambiato. O meglio, tutto si ripete quasi in modo identico. Siamo prigionieri dell’“eterno ritorno dell’uguale”, per dirla con Friedrich Nietzsche. Sento che è arrivato il tempo di riordinare le esperienze vissute in questi dieci anni e cercare di trasmetterne il senso o, per meglio dire, il nonsenso. Questo decennio si è aperto con la caduta dei tecnici (governo Monti) e si è chiuso con la caduta di un altro tecnico (governo Draghi). In mezzo ci sono state “rottamazioni”, “vaffa” e sovranismi vari.
Fasi di ingordigia e sfrenatezza, durante le quali ci siamo abbuffati senza ritegno di slogan, promesse, rivoluzioni, bonus e conflitti, si sono alternate a periodi in cui abbiamo dovuto prendere amare medicine, fare moto, digiunare. In cui siamo stati obbligati a rimetterci in forma. Come nella vita reale, amiamo i bagordi e detestiamo le diete. Anche per questa ragione, ogni volta ricominciamo sempre tutto da capo, senza alcuna logica o riflessione su quanto accaduto.
Volete la prova di quanto scrivo? Quando Mario Draghi è stato sfiduciato, il 60 per cento circa del paese dichiarava di apprezzarne l’operato. La stessa percentuale di italiani ha votato, poche settimane dopo, partiti che o lo avevano sfiduciato o non lo avevano mai appoggiato. Aver bruscamente licenziato l’italiano più autorevole al mondo, che noi avevamo chiamato dopo i fallimenti dei governi giallorosso e gialloverde, non ha lasciato alcuna traccia sull’elettorato. Ce ne siamo semplicemente dimenticati nel giro di un mese. Come stanno insieme questi due fatti, e cioè l’apprezzamento per un capo di governo che aveva riportato l’Italia al rispetto e alla considerazione internazionali e il successo elettorale di chi lo ha cacciato?
Siamo davanti a un paradosso, ma solo apparente.
Il governo Draghi non è mai stato considerato “politica” dai cittadini, perché per noi la politica non ha a che fare con il governo del paese. In Italia, la politica è limitata all’atto del voto preceduto (e succeduto) dalla campagna elettorale. Ciò che accade dopo la campagna elettorale è solo una continuazione della campagna elettorale. Per questo, gli esecutivi di ogni colore varano caterve di provvedimenti che non saranno mai implementati. La campagna elettorale deve permanere anche dopo il voto e anche se si è arrivati al governo del paese. Fare sempre campagna elettorale è l’escamotage per non confrontarsi con la complessità del governo. In qualche modo, occorre riempire le cronache dei giornali di polemiche, allarmi democratici, slogan, promesse, replicando sempre il modello della politica di opposizione.
L’opposizione è dunque la politica per eccellenza, e si cerca di fare l’opposizione anche quando si è al governo. Ed ecco quindi apparire, con la destra al governo, tutta una serie di reati inapplicabili e assurdi. Pensate al reato di rave o al reato universale di “scafismo”, il quale prevederebbe la cattura all’estero, operata da nostrani Navy SEAL, di trafficanti di migranti. Saranno mai operativi questi provvedimenti, in un paese dove la certezza della pena è una pia illusione, anche per i reati più gravi? Ovviamente no. Ma non è per questo che vengono varati. La destra deve far dimenticare che il blocco navale promesso per anni non è attuabile e provocare una reazione delle opposizioni, per poi poter contrattaccare dicendo: “Stanno con i trafficanti di uomini.”
Il punto fondamentale, la regola principale del nostro Fight Club, se volete, è tenere sempre alto il rumore. I talk show e i social network pretendono quotidianamente la loro libbra di rumore da commentare. Il dibattito si concentra sulla ministra Eugenia Roccella, che chiede di non dare nomi umani ai cani; sul presidente del senato, che scambia le SS di via Rasella con una banda musicale di buontemponi; sul compagno della premier, che ne spara una al giorno fino a provocare la rovina della sua carriera e della sua relazione; sullo spot dell’Esselunga. Per funzionare, questo meccanismo di distrazione di massa ha bisogno che la parte avversa possa gridare rispettivamente al fascismo (la sinistra) o alla sostituzione etnica e al tradimento della patria (la destra). L’unico obiettivo è la militarizzazione del proprio elettorato. E poco importa se questa militarizzazione costante, seguita dall’assenza di risultati, provoca un aumento vertiginoso dell’astensionismo tra i cittadini disillusi. I disillusi sono coloro che continuano a pensare che la politica dovrebbe servire a risolvere almeno alcuni dei tanti problemi dell’Italia. “Che se ne stiano a casa, questi pericolosi esseri pensanti!”: questo si augurano i partiti, che al contrario auspicano un corpo elettorale fatto solo di “curve politiche” che si accontentano del “voto contro”.
Dati i risultati della Seconda Repubblica, ciò che sorprende non è tanto la diserzione dell’elettorato, quanto l’assurdo ripetersi delle stesse modalità di voto da parte di chi continua a esercitare il proprio diritto. Siamo imprigionati in un gioco a somma zero da cui non riusciamo a uscire.
Tratto da “Il Patto. Oltre il trentennio perduto” (La Nave di Teseo), di Carlo Calenda, 19€, pp. 300