Per decenni l’Unione europea si è sforzata di essere considerata sulla scena mondiale leader nella lotta al cambiamento climatico. Uno dei motori alla base di tali ambizioni di leadership potrebbe essere la conclusione sempre più evidente che l’Ue è riuscita (in gran parte con successo) a gestire una crisi di sicurezza dell’approvvigionamento energetico senza compromettere il proprio programma di decarbonizzazione. Per trasformare questo risultato interno in una leadership internazionale sul tema del clima, tuttavia, l’Ue deve prendere la strada della proattività in modo da guadagnare posizioni rispetto ad altri attori che cercano di guidare l’agenda climatica globale.
Inoltre, la sfida di mantenere a livello interno le promesse internazionali in fatto di clima è tutt’altro che conclusa e sta anzi entrando nella sua fase più delicata, dal momento che l’Ue e i suoi Stati membri determinano se e come le promesse collettive possano essere tradotte in azioni da parte di questi ultimi, in un contesto di crescente scetticismo populista nei confronti della transizione economica verde europea.
Una risposta sinergica alla crisi energetica
Guardando a quanto fatto da un anno e mezzo a questa parte, l’Unione europea può affermare di essere riuscita a portare avanti le ambiziose politiche di decarbonizzazione sottese al Green Deal europeo pur nel pieno dell’emergenza di approvvigionamento, in particolare di gas naturale, causata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sembrano quindi scongiurati gli iniziali timori dell’Ue, secondo cui la crisi degli approvvigionamenti avrebbe potuto minare il proprio obiettivo
di neutralità climatica entro la metà del secolo a causa di interventi affrettati e non coordinati degli Stati membri. All’interno dei propri discorsi e documenti strategici, gli alti funzionari dell’Ue hanno più volte sottolineato che la sicurezza energetica a lungo termine del continente debba essere costruita su basi sostenibili, soprattutto sulla rapida espansione delle energie rinnovabili nazionali e sulla riduzione del consumo energetico complessivo. REPowerEU, questo il nome del pacchetto di misure dell’Ue per affrontare la crisi energetica, è stato quindi concepito sin dall’inizio non per allentare, quanto per catalizzare le ambizioni climatiche dell’Ue.
E questa strategia sembra aver dato i suoi frutti. Con l’attuazione di REPowerEU, i legislatori europei hanno rafforzato parti fondamentali del pacchetto di proposte legislative Fit for 55: l’obiettivo per le energie rinnovabili è stato aumentato dal 40 percento proposto in origine ad almeno il 42,5 percento entro il 2030, mentre quello per l’efficienza energetica, rispetto allo scenario di base del 2020, è passato da un miglioramento del 9 percento a un miglioramento dell’11,7 percento entro il 2030.
Questi risultati legislativi si aggiungono all’elenco delle conquiste climatiche della Commissione von der Leyen, che comprende la revisione del sistema di scambio di emissioni (ETS) del blocco e l’approvazione del meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM) nel maggio 2023. REPowerEU ha anche presentato proposte per riformare il mercato dell’elettricità dell’Unione in modo da agevolare l’integrazione delle energie rinnovabili e lo stoccaggio di energia. Questo bilancio ampiamente positivo può dotare l’Ue della legittimazione necessaria per assumere la guida dei negoziati internazionali sul clima e per promuovere le ambizioni di decarbonizzazione a livello mondiale, chiedendo ad altri Paesi di intensificare i loro sforzi e fungendo da esempio positivo per quanto riguarda il modo in cui l’ambizione climatica può essere codificata nella legge e nella politica.
In vista della COP28, l’Unione europea (e in particolare l’allora Vicepresidente Esecutivo dell’Ue per l’Azione per il clima, Frans Timmermans) si è impegnata a rafforzare la propria diplomazia climatica al di là del quadro formale dell’UNFCCC per favorire un simile incremento di ambizione a livello globale.
Per esempio, in occasione della settima Ministeriale per l’Azione per il Clima del maggio 2023, ospitata dall’Ue, dalla Cina e dal Canada, Timmermans ha chiesto un intervento “radicale, immediato e trasformativo” relativamente al cambiamento climatico, sottolineando come esempio positivo la “forte azione” intrapresa dall’Ue. Nel giugno 2023 l’Ue si è riunita insieme agli Stati Uniti e alla Nato per discutere su come affrontare in maniera proattiva l’impatto del cambiamento climatico sulle questioni di sicurezza. A livello interno, le linee guida ufficiali del Consiglio europeo in materia di politica climatica del marzo 2023 delineano i contorni della leadership dell’Ue, ponendo la stessa come alleata dei Paesi meno sviluppati e dei piccoli Stati insulari, i primi ad essere colpiti dalle conseguenze negative dei cambiamenti climatici e spesso privi di risorse adeguate ad adattarsi o a riprendersi dagli effetti devastanti di eventi meteorologici estremi. Già in occasione dell’ultima Cop, tenutasi a Sharm el-Sheikh nel novembre 2022, l’Ue ha sostenuto gli sforzi per la creazione di un fondo dedicato per le perdite e i danni e attualmente sta chiedendo un incremento dei finanziamenti per il clima, in modo da sostenere una transizione equa a livello globale. Se però da un lato l’istituzione del Fondo per le perdite e i danni è stata accolta positivamente dalla maggior parte degli analisti, dall’altro la sempiterna e fondamentale domanda da porre a Dubai riguarderà se e come tale fondo potrà disporre di una dotazione sufficiente per essere significativo.
Il tristemente noto fallimento dei Paesi sviluppati nel raggiungere l’obiettivo di fornire un totale globale di 100 miliardi di dollari all’anno ai Paesi in via di sviluppo entro il 2020 avrà diminuito la fiducia di molti nella possibilità di dare un seguito tempestivo al Fondo per le perdite e i danni.
Il lungo percorso dell’Unione
Attualmente l’Unione Europea sembra avere il sostegno dei propri abitanti nel perseguire la leadership climatica e la definizione dell’agenda a livello globale. Secondo un recente sondaggio di Eurobarometro, che ha chiesto agli abitanti dell’Ue di indicare i soggetti che ritengono responsabili della lotta al cambiamento climatico, l’Ue è stata menzionata dagli intervistati con la stessa frequenza dei governi nazionali (56 percento); ciò sembra conferire all’Ue un forte mandato interno per parlare in modo autorevole della direzione della politica climatica sulla scena mondiale.
Il tentativo dell’Unione di proporsi come leader durante le Cop è invece tutt’altro che recente: sono decenni che a Bruxelles si cerca di dimostrare che l’Europa è in grado di realizzare le proprie ambizioni climatiche e di dettare l’agenda a livello internazionale. In questo senso, il Green Deal europeo non segna l’inizio degli sforzi di leadership climatica dell’Europa, ma coincide con la rivendicazione più candida e ambiziosa di un ruolo globale più influente. La leadership climatica è alla base del Green Deal europeo, il cui principale documento politico strategico evidenzia come per aumentare le ambizioni climatiche globali l’Ue può “offrire un esempio credibile e dare prova di coerenza nella diplomazia, nella politica commerciale, nel sostegno allo sviluppo e nelle altre politiche esterne”.
La leadership europea basata sull’esempio è a rischio?
Da tempo l’idea dell’esemplarità è nota agli analisti politici e al mondo accademico come componente chiave della leadership climatica: coloro che chiedono ad altri di puntare più in alto devono saper dimostrare di essere in grado di rispettare gli elevati standard a cui si attengono tutti gli altri.
Sebbene l’ambizione paneuropea sia relativamente alta, l’esempio di leadership non può venire solo da Bruxelles, soprattutto quando si tratta di realizzare di fatto gli obiettivi prefissati. Dietro a tutto ciò si nasconde una minaccia alle ambizioni diplomatiche dell’Ue alla Cop28. Sono gli Stati membri, piuttosto che le istituzioni europee, ad avere la competenza legale e normativa per realizzare la maggior parte degli obiettivi chiave dello European Green Deal. La Corte dei conti europea con sede a Lussemburgo ha di recente presentato una relazione che mette in dubbio la sufficienza degli sforzi degli Stati membri per raggiungere gli obiettivi climatici ed energetici dell’Ue per il 2030, sottolineando in particolare come non siano mobilitati fondi sufficienti. Tale preoccupazione è aggravata dagli attuali sforzi per aumentare le ambizioni climatiche degli Stati membri affinché raggiungano gli obiettivi rivisti del Green Deal. A questo proposito, è stato chiesto ai governi nazionali di presentare gli aggiornamenti dei cosiddetti Piani Nazionali Integrati per l’Energia e il Clima (PNIEC) entro il 30 giugno 2023, ma alla scadenza solo pochi di essi hanno ottemperato alla richiesta; un numero considerevole di tali documenti risulta ancora non pervenuto.
Uno scenario in cui gli Stati membri non siano in grado di presentare i propri aggiornamenti entro la data della Cop oppure (forse peggio) una situazione in cui, sebbene presentati, gli aggiornamenti mostrino un notevole divario tra gli obiettivi climatici concordati dall’Ue e ciò che gli Stati membri sono effettivamente disposti a realizzare sarebbe molto imbarazzante per l’Unione. E minerebbe la sua autorità. Questo stress test del quadro di governance climatica dell’Ue si svolge in un momento in cui i partiti populisti di estrema destra sono di nuovo in aumento negli Stati membri, spesso con una tribuna più scettica nei confronti del clima. Questo sviluppo ha anche alimentato il timore che le prossime elezioni del Parlamento europeo del giugno 2024 possano restituire una camera e un collegio di commissari molto meno favorevoli a un’azione ferma per il clima.
Al di là di queste preoccupazioni immediate (e, di fatto, della COP28), l’Ue dovrà mantenersi flessibile anche in futuro per rispondere a come l’Accordo di Parigi si sta sviluppando all’atto pratico. In vista di ciò che probabilmente sarà un bilancio globale deludente e deprimente a Dubai, l’Unione deve dimostrare di sapere incorporare nelle proprie leggi nazionali gli insegnamenti appresi. La legge europea sul clima prevede che entro sei mesi dal bilancio globale sia fissato un obiettivo di decarbonizzazione per il 2040, tenendo conto dei risultati di tale esercizio, e richiede anche una revisione in modo da verificare se la struttura di governance climatica dell’Ue sia ancora adatta allo scopo alla luce dello stesso bilancio globale. Fornendo una risposta rapida, ma ponderata e adeguata, ai risultati del bilancio globale attraverso questi canali, l’Ue ha l’opportunità di distinguersi dagli altri attori.
Visioni contrastanti
In qualche modo, la politica globale della leadership in materia di cambiamento climatico è cambiata dopo l’annuncio del Green Deal europeo di fine 2019. Il Green Deal nasce solo in parte per colmare l’assenza percepita di un campione globale in fatto di clima, tracciando volutamente un contrasto tra l’Ue e l’approccio negazionista al cambiamento climatico dell’allora presidente americano Trump, culminato col ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi.
La posizione degli Stati Uniti è però profondamente cambiata: non appena assunta la carica, il Presidente Biden ha subito aderito nuovamente all’Accordo di Parigi e lo scorso novembre a Sharm el-Sheikh, forte dell’approvazione ottenuta all’inizio del 2022 per lo storico e solido Inflation Reduction Act (IRA), si è scusato per l’approccio isolazionista del suo predecessore dando un chiaro segnale che gli Stati Uniti sarebbero stati un partner affidabile nella lotta contro il riscaldamento globale.
Alla luce della forte presenza degli Stati Uniti sulla scena climatica globale, e in buona parte a seguito dell’aggressiva politica di spesa dell’IRA che minaccia di mettere a repentaglio le ambizioni dell’Unione nel settore della produzione di tecnologie pulite e di materie prime critiche, l’Ue deve trovare il giusto approccio diplomatico e porsi in maniera complementare anziché bisticciare per i poteri in grado di definire l’agenda – un confronto in cui potrebbe anche avere la peggio.
L’Ue deve rimanere proattiva e vigile
Lungi dal poter contare su quella che è stata considerata una risposta ampiamente competente e unitaria alla crisi energetica, è ora necessario un grande lavoro diplomatico e legislativo, tanto a livello nazionale quanto internazionale, per mantenere un fronte unito e tradurre questo risultato in leadership. Un reportage di “Carbon Brief” sulla Conferenza sul clima di Bonn del giugno 2023, che avrebbe dovuto gettare le basi per la Cop28, mostra il persistere di ostacoli significativi a molte delle priorità climatiche dichiarate dall’Ue. Per quanto riguarda le politiche di mitigazione più ambiziose, esiste ancora una notevole incertezza riguardo all’eliminazione globale (o almeno alla c.d. “riduzione graduale”) dei combustibili fossili. Inoltre, non vi è stato alcun progresso sul programma di lavoro “Mitigation Ambition and Implementation”, istituito dal Patto per il clima di Glasgow.
L’analisi di quanto affrontato suggerisce che i fondi per il clima possono essere una delle chiavi per allentare le tensioni sulla mitigazione. Affinché l’Unione possa emergere come leader dai colloqui di Dubai, il sostegno continuo e coerente dell’Ue alle iniziative di adattamento, come gli aiuti per il clima e il Fondo per le perdite e i danni, deve tradursi in impegni finanziari concreti. Il tutto deve essere accompagnato da interventi climatici ambiziosi e credibili a livello nazionale, dimostrando di essere in grado di mantenere le promesse fatte.
Max Münchmeyer è ricercatore nel programma energia, clima e risorse dello IAI. È anche un dottorando presso l’Istituto Universitario Europeo (IUE) di Firenze, dove svolge attività di ricerca in materia di governance energetica dell’UE e solidarietà energetica