Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2024 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.
Il 2024 è l’anno delle elezioni europee (9 giugno) e soprattutto del voto americano (5 novembre). È improbabile che l’Europa cambi assetto politico, l’avanzata delle forze eversive pare sia sotto controIlo, anche se non è da sottovalutare. Le tradizionali famiglie politiche – quella popolare, rappresentata sul numero di Linkiesta Magazine dalla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, e quella socialista e democratica, presente qui con la vicepresidente del Parlamento di Bruxelles Pina Picierno – riusciranno a contenere gli antieuropei, grazie anche all’apporto dei liberal-democratici riuniti sotto la leadership di Emmanuel Macron, e che il cielo ce la mandi buona per la litigiosa diramazione italiana.
Più preoccupanti, invece, sono le possibili conseguenze delle elezioni presidenziali americane, dove Donald Trump secondo i sondaggi di fine 2023 sarebbe addirittura in vantaggio rispetto al presidente in carica Joe Biden. Che un gigante contemporaneo come Joe Biden, l’uomo che ha salvato l’America, l’Ucraina e l’Europa, possa essere scalzato da un truffatore patentato come Donald Trump rasenta l’incredibile e fotografa i tempi impazziti che stiamo vivendo.
C’è sempre la possibilità che nel frattempo il palazzinaro preferito da Vladimir Putin, già due volte sottoposto alla procedura di impeachment e salvato da un voto politico espresso da quello che una volta era il Partito repubblicano, possa essere condannato due o tre volte, se non di più, e magari impossibilitato a fare campagna elettorale, ma vai a sapere che effetto potrebbe avere un’eventuale sentenza di colpevolezza su quei picchiatelli del Make America Great Again. A novembre, in gioco non ci sarà solo la Casa Bianca, ma il futuro dell’America, e con l’America anche del resto del mondo, Ucraina, Europa, Medio Oriente, e noi.
I precedenti storici dicono che bisogna restare ottimisti, anche nel caso del possibile cedimento strutturale dell’America, perché comunque sarebbe uno stop momentaneo in attesa di una prossima rinascita. Ma la realtà, purtroppo, indica una direzione contraria.
L’America ci ha abituati a vederla risollevarsi ogni volta che la storia è sembrata pronta a mettere un punto finale allo straordinario esperimento democratico che dura ormai da oltre due secoli, un esperimento democratico sempre centrato sulla costante ricerca di una «more perfect union», come recita il preambolo della sua Costituzione, confezionata nel lontano 1787. Aspirare a «un’unione più perfetta» vuol dire essere consapevoli che il progresso americano è un lavoro costantemente in corso, mai completo.
Con tutte le sue contraddizioni, l’America è l’esempio vivente che il cammino verso la giustizia morale e sociale può essere lungo e difficile, come diceva Martin Luther King, ma che alla fine la storia tende inevitabilmente verso la realizzazione della giustizia e dell’equità sociale.
Lo spirito della frontiera, la capacità di attrarre capitale umano da ogni parte del mondo, l’auto-percezione di essere portatori di una missione morale e salvifica universale, assieme all’ingegno che diventa sistema industriale innovativo, costituiscono le fondamenta dell’eccezionalismo americano, e la sua unicità. Su questi quattro pilastri, poggia la Costituzione che da oltre due secoli guida il Paese.
Il punto, oggi, è se l’America sopravvivrebbe o no a un secondo mandato di Donald Trump, dopo che il primo è finito con un assalto alla Camera e al Senato di Washington, una caccia ai deputati e ai senatori, un mancato linciaggio del vicepresidente (di Trump) Mike Pence, un tentato colpo di Stato, e una mezza dozzina di morti.
La storia americana invita a rimanere ottimisti, la prudenza no: Trump minaccia vendetta, di incarcerare i dissidenti, di chiudere la bocca agli avversari e dice apertamente che il giorno numero uno della sua seconda presidenza sarà una «dittatura», anche se – bontà sua – promette che durerà soltanto ventiquattr’ore perché dal giorno numero due ristabilirà la normalità democratica, ovviamente una normalità trumpiana fatta di bugie, disinformazione, caos e cura dell’interesse nazionale russo.
Con il possibile ritorno al potere del primo presidente antiamericano degli Stati Uniti è oggettivamente difficile restare ottimisti e non immaginare, invece, tamponamenti a catena nel resto del mondo, a cominciare dalla questione ucraina, e quindi europea, fino al Medio Oriente e all’Asia con le mire espansioniste della Cina su Taiwan e sull’Africa.
Le elezioni hanno sempre conseguenze, ma questo principio non è mai stato così evidente quanto questa volta. Prepariamoci, intanto, al voto europeo, a mantenere vivo il modello liberal-democratico della società aperta, ad accogliere a braccia aperte nella famiglia europea i fratelli ucraini, e con loro anche i moldavi e i georgiani che non ne vogliono sapere del colonialismo criminale russo, e incrociamo le dita sulla possibilità che la prossima Commissione europea possa davvero essere guidata dal più autorevole leader internazionale di questa epoca, Mario Draghi.
In caso di catastrofe americana, Mario Draghi sarebbe la migliore assicurazione possibile per il mondo libero.
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