La parola più insistentemente, fastidiosamente, stucchevolmente ripetuta nella neolingua della politica, tosto fatta propria e propalata dal linguaggio giornalistico, è senza dubbio “interlocuzione”. Non si tratta di un sostantivo nuovo, anche se a molti può essere sembrato tale quando ha cominciato a riversarsi inarrestabile da una moltitudine di bocche contegnose. Si trovava già, in una accezione particolare, nel trattato Verona illustrata di Scipione Maffei, pubblicato nel 1732: «Così dicasi de’ documenti tutti de’ mezzani secoli, ne’ quali le interlocuzioni romane, le formole pretorie, le giudiziarie cautele…». Mentre, nel senso più ordinario, lo usa anche Giuseppe Garibaldi nelle sue Memorie, compilate tra il 1849 e gli ultimi anni di vita, e uscite postume nel 1888: «Dopo poche interlocuzioni, diedi il mio nome». Ma è soltanto negli ultimi anni che questa parola si è imposta, trovando una formidabile cassa di risonanza nell’eloquio di un altro Giuseppe, l’avvocato del popolo Conte, a rappresentare il momento topico in cui si condensa, e non di rado si esaurisce, tutta l’azione degli attori politici.
Costruito sul verbo “interloquire” (dal latino interloqui, letteralmente “parlare tra”), che è una voce dotta ma abbastanza comune, il vocabolo “interlocuzione” è stato a lungo sopravanzato nell’uso dal sostantivo deverbale “interlocutore” e dal connesso aggettivo denominale “interlocutorio”. Tanto è vero che proprio a questo aggettivo fa riferimento la spiegazione che ne dà il vocabolario Treccani: «Nel linguaggio giuridico del passato, intervento del giudice in corso di causa con provvedimento a carattere ordinatorio e non decisorio (sinonimo di sentenza interlocutoria)».
Questa definizione – corrispondente all’uso più antico, quello del passo citato di Scipione Maffei – è però registrata come seconda; la prima è quella che inquadra l’uso prevalente del sostantivo, come nel passo di Garibaldi: «L’interloquire, il prender parte a un dialogo; le parole stesse pronunciate da chi interviene in una conversazione». Il vocabolario Treccani lo presenta come “non comune”, ma negli ultimi anni, come sappiamo, è diventato molto (e sempre più) comune.
Un crescendo inarrestabile, simile a quello delle slavine. Un contagio che dal linguaggio elusivo dei politici di ogni ordine e grado passa a quello pragmatico dei dirigenti d’azienda e di sodalizi vari, a quello misurato dei diplomatici, a quello rivendicativo dei sindacalisti, persino a quello felpato degli alti prelati (l’anno scorso il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Commissione episcopale italiana, ha salutato l’insediamento del governo Meloni assicurando che la Chiesa non avrebbe fatto mancare «un’interlocuzione costruttiva»).
Le interlocuzioni si aprono, si avviano, sono in corso. Ovunque, instancabilmente. Vengono annunciate in televisione, rimbalzano sui giornali. In ogni discorso pubblico con qualche pretesa di formalità l’interlocuzione prende il posto di parole (un tempo) più familiari, sebbene non proprio equivalenti, come dialogo o confronto o scambio di vedute, o anche, con minore approssimazione, trattativa, negoziazione, mediazione: rispetto alle quali, oltre che apparentemente più forbita, ha per chi vi fa ricorso il vantaggio di risultare meno impegnativa, più fredda e distaccata nella sua implicita ufficiosità. Il dove, il quando, il chi non sono mai chiari, e così, se l’interlocuzione abortisce, nessuno se ne accorge e a nessuno se ne chiede conto. Semplicemente svanisce, come i sogni al mattino.
Tanto più che non è nella sua natura semantica sfociare necessariamente in un risultato, perché l’atto di “interloquire” contiene nella sua matrice latina il significato proprio e insopprimibilmente fastidioso di “interrompere”, che è un comportamento diverso e contrastante rispetto all’ordinato e costruttivo svolgimento dialogico. E il già citato aggettivo “interlocutorio” si riferisce a qualche cosa che (virgolettiamo ancora dal vocabolario Treccani) «non esprime una decisione, una risoluzione, un atto di volontà, ma ha soprattutto il fine di consentire la prosecuzione di discussioni e trattative passibili di ulteriori sviluppi»: ossia un ulteriore stadio preliminare nel laborioso processo che dovrebbe condurre (ma non sempre conduce, nel moltiplicarsi degli stadi preliminari e intermedi) a una conclusione positiva, in definitiva un modo per prendere (e spesso perdere) tempo. E così l’interlocuzione, divenuta fine a sé stessa, si traduce nella foglia di fico dell’inconcludenza.