Ritorno al futuroLa senatrice e lo spirito del tempo in cui la maternità è già più cool della carriera

Mennuni di Fratelli d’Italia probabilmente non se n’è accorta, ma il modello di vita delle donne degli anni Cinquanta oggi è più apprezzato rispetto a quando andavamo a scuola noialtre

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Gentile senatrice Mennuni, innanzitutto mi scuso con lei. Mi scuso perché sono ormai più di tre anni, quasi quattro, che ho quasi smesso di leggere i quotidiani italiani e smesso del tutto di guardare i talk-show: da quando si sono messi a fare edizioni monografiche sulla pandemia, passando dall’abituale catalogazione di “noiosi” a quella di “da morire di noia”.

Mi scuso perché, mancandomi queste preziosissime fonti d’informazione, non so più nulla di ciò che interessa solo a chi fa le pagine di politica dei giornali e gli inviti dei talk-show, e cioè: chi siano i parlamentari, e per quali castronerie si siano distinti.

Mi scuso perché quindi io fino a ieri ignoravo la sua esistenza, e so bene che non è una premessa che faccia piacere a chi si vede oggetto d’un articolo: io stessa m’impettisco moltissimo quando qualcuno vuole parlarmi dell’articolo di ieri senz’aver letto perlomeno la mia bibliografia degli ultimi dieci anni.

Tuttavia io e lei sappiamo, poiché siamo donne di mondo, che c’è di peggio che aver letto un solo articolo e pretendere di dibattere, e questo peggio è: aver letto solo il titolo. Quindi ecco, io non volevo essere come quelli che mi contestano una parola che appare nel titolo e mai nell’articolo, epperciò non mi sono, come tutti quelli che ritengono di dileggiarla sui social, limitata a leggere la trascrizione della sua uscita sulla maternità. Io sono andata a guardarmi il filmato, epperciò vorrei innanzitutto dire: la faccia di Andrea Pancani, conduttore di “Coffee Break” che ha ospitato il suo manifesto filosofico.

Ho lavorato per Andrea Pancani, quand’ero piccina. Non nel senso di: lavoro minorile. Nel senso di: ventisei anni fa non era ancora avvenuto quello slittamento dell’anagrafe per cui si diviene tutti coetanei (succede un po’ dopo i quaranta, direi). Ventisei anni fa Andrea era un adulto e io una pivella.

Più cialtrona di ora, più molesta di ora, con più complesso di superiorità di ora. Diciamocelo con la serenità dei veterani: ero insopportabile. Non ho mai visto Andrea perdere la pazienza, e dire che l’avrei fatta perdere a un santo. Credo c’entri il suo essere napoletano, quell’apparente mollezza che poi abbiamo imparato a chiamare resilienza, quell’essere serafico che viene così naturale che neanche devi farne sfoggio.

Insomma, lei ieri parlava, e il regista ha staccato su Andrea solo una volta, ma in quel secondo c’era tutto: il «ma cosa cazzo sta dicendo questa», il «vabbè anche stamattina abbiamo svoltato la clip virale», il «devo ricordarmi di passare a prendere le sfogliatelle». Io la ringrazio, senatrice, perché ieri ho visto la faccia di Andrea e ho voluto un po’ più bene alla mia trascorsa pischellitudine (e a quel bar di piazza della Balduina in cui la redazione gli metteva in conto qualunque colazione – ma non mi pare ci fossero le sfogliatelle).

Ma ora basta coi cazzi miei, e veniamo a cos’ha detto lei ieri della maternità, in questo 2023, quasi 2024, che deve aver scambiato per il 1983. Sua madre, dice, quand’era piccina e già a dodici anni voleva fare politica – poffarbacco, una vocazione che nemmanco Winston – le diceva così: «Tu devi ricordare sempre che hai l’opportunità di fare ciò che vuoi, ma non devi mai dimenticare che la tua prima aspirazione dev’essere quella di essere mamma a tua volta».

Ora, senatrice, io non le farò nessuna delle obiezioni che sono abbastanza certa le staranno oggi facendo tutte le trentenni prive di istanze vere da portare avanti e quindi pronte ad attaccarsi vigorosamente alle puttanate. Non le dirò che sua madre era patriarcale ed eteronormativa e discriminatoria nei confronti di una sua eventuale sterilità e pronta a tarpare le sue vere ambizioni.

Non glielo dirò perché – scusi: sono già dieci righe che non parlo dei cazzi miei, mi manca l’aria – sono figlia anch’io d’una donna non intelligentissima. Non abbastanza intelligente da prendere in considerazione una qualsivoglia forma d’emancipazione, non abbastanza intelligente da capire che i figli li fanno anche i gatti e semmai bisognerebbe ambire a un Nobel, non abbastanza intelligente da cogliere lo spirito del tempo.

Lei aveva dodici anni nel 1988, a metà tra la morte di Marisa Bellisario e l’arrivo nei cinema di “Una donna in carriera”: non c’era momento più adatto di quello per dimostrarsi non un fulmine di guerra dicendo a una figlia di pensare innanzitutto a farsi uscire anche lei quattro chili di roba dalla passera. (Questo è il punto in cui può lanciare lontano il mezzo su cui mi sta leggendo, dicendo che sono orrendamente volgare e si rifiuta di scendere al mio livello).

Il problema, senatrice, non sono sua madre o la mia (che strappava le pagine se mi vedeva guardare due secondi in più un abito da sposa). Le madri non sono mai un problema, se non per chi sopravvaluta moltissimo la loro capacità di plasmare le figlie a loro immagine. Mia madre mi regalava manuali su come trovare marito e io non ho mai pensato di dovermene procurare uno; la maggior parte delle mie amiche giura d’aver avuto madri che spronavano solo alla carriera, e ne sono uscite adulte che se fossero zitelle passerebbero le giornate a piangere. I figli crescono come vogliono loro, mica come vogliono le madri.

Il problema, gentile senatrice, è quel che lei ha detto subito dopo. Trascrivo: «Ora userò un termine terribile, diventerà trash per cui… Noi dobbiamo aiutare le istituzioni, il Vaticano, le associazioni, la maternità a diventare di nuovo cool».

Questa frase contiene più di una di quelle che a Milano chiamerebbero «criticità» e a casa mia chiameremmo «frane». La prima è che lei non ha la più pallida idea di cosa voglia dire «trash»: chissà quindi cosa pensa significhi «cool». La seconda è che la sua sintassi indica che lei vuole aiutare il Vaticano a diventare di nuovo cool (sarà un appello a Sorrentino?).

La terza e più grave questione è che lei ha ereditato da sua madre la mancanza di spirito del tempo, e non si è accorta che sono almeno ventun anni che la maternità è fin troppo cool. Ventun anni fa uscì “Ma come fa a far tutto?”, il romanzo che ci liberò dalla smania di trovare cool le zitelle e introdusse la letteratura comicosentimentale sulla maternità, monopolista nel ventennio successivo nella sezione femminile d’ogni libreria.

L’aveva scritto Allison Pearson, un’editorialista conservatrice (dovrebbe essere il suo tipo) inglese, e naturalmente era un continuo lamento, giacché avevamo già da tempo deciso che lamentarci era la cosa più cool che ci fosse: “Il diario di Bridget Jones”, che cinque anni prima ci aveva ridotte a lettrici di lamenti sul peso e i fidanzati, era tutt’un lamento. Lamento buffo, ma pur sempre lamento.

Sono ventun anni che il suo rimosso è anche quello di molta critica culturale: ogni volta che chiunque pubblica un libro sugli inciampi della maternità, c’è sempre qualcuno che ci spiega che finora queste cose della maternità non ce le aveva mai dette nessuno, e invece ce le hanno dette tanti di quei volumi che le so persino io che non sono madre neppure d’una piantina di basilico. Come può una cosa che ha attecchito così tanto nel tessuto sociale risultare invisibile a quasi tutte le osservatrici?

«L’autonomia, anche economica, ha spinto le donne a volere tutto: non solo la carriera, il matrimonio, i figli, la bella casa, magari l’amante, ma anche le amiche, l’ultima moda, l’eterna giovinezza, la ginnastica, i viaggi, gli amici, le cene, le letture, il cinema, le prime, la biancheria sexy, i massaggi, insomma, tutto più tutto. Perdendo, tra una fuga e l’altra, un arrembaggio e l’altro, nell’accumulo disordinato di perfezioni scadenti, piccoli pezzi di sé, perdendosi in una infelicità affannata e scontrosa, che colpisce, soprattutto, le donne più fortunate, quelle che hanno successo professionale e tutto il resto, a cui il dilemma si pone perché potrebbero anche rinunciare».

Lo scriveva su Repubblica ventun anni fa Natalia Aspesi, parlando del libro di Allison Pearson e capendo subito come sarebbe andata a finire: che avremmo (che avrebbero: io e Natalia siamo state più sveglie) rinunciato alla carriera, mica a quell’indispensabile accessorio che è il bebè.

Non sto a scrivere che il problema delle donne di questo secolo è la risacca dell’emancipazione, la recessione del carrierismo, il riflusso verso il privato: l’ho già scritto, se proprio ci tiene può leggere gli arretrati. Ma, mi creda, il problema non è che fare la massaia degli anni Cinquanta non sia più cool: il problema è che lo è molto più di quando andavamo a scuola noialtre.

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